Springsteen, il Boss nato per cantare di Marinella Venegoni
Springsteen, il Boss nato per cantare In quattro ed vengono ricostruiti 25 anni di carriera, con decine di brani mai ascoltati Springsteen, il Boss nato per cantare Un viaggio nei suoi stili e nei suoi umori alla vigilia del prossimo tour invernale IL MITO QUATTRO ORE DI ROCK SARA' la soglia dei cinquantanni che lo aspettano l'anno prossimo; oppure sarà più semplicemente che, alla fine, anche il Boss è rimasto imprigionato nell'ultima moda che dalle rockstar pretende soltanto monumentali cofanetti, vere enciclopedie sonore che salvino anche le tasche dal morbo dei bootleg. Comunque sia andata, esce oggi «Bruce Springsteen: Tracks», confezione di 4 ed con 66 canzoni tratte da 56 master mai pubblicati in 25 anni di lavoro (di tutti questi brani, soltanto 10 sono conosciuti come lati-B o come extra-tracks di «singoli»). Ecco dunque un'opera-monstre all'altezza della fama di generosità del buon Bruce, uno che quando c'è da rispondere al calore del pubblico esagera sempre (tanto che i suoi concerti sono sempre più lunghi d'una spanna, rispetto a quelli di chiunque altro). E chi non l'avesse mai ascoltato è bene che non lo perda, nel tour del prossimo inverno, quando pare ormai certo che tornerà sulla strada con i vecchi amici della E Street Band, giusto per promuovere questi «Tracks». Alla fine dell'mterminabile ascolto (4 ore), gli album si rivelano un viaggio affascinante nei modi, negli stili, e negli umori attraversati da Springsteen durante la sua evoluzione umana ed artistica. Va da sé che i momenti più fragranti, davvero una brioche calda di prima mattina, vengono fuori dalla musica degli anni verdi. Quella sua voce cruda, con la sola chitarra che gli parla intorno, in «Growing Up», il brano che apre l'opera, racconta ad esempio con una passione ancora emozionante il ventitreenne ragazzo che si provò negli «Hammond Demos», i 12 pezzi che lui eseguì negli scudi della Columbia di fronte al talent-scout John Hammond, scopritore anche di Aretha Franklin e Bob Dylan: era il '71, e quell'audizione gli fruttò subito il contratto con la Columbia (tuttora valido, perché Springsteen è fedele per carattere, il che aggiunge credibilità al suo santino). Segue quest'apertura vibrante un fiume scatenato di rock'n'roll che ha già l'impronta inconfondibile dei compagni della E Street Band, il sax di Clarence Clemmons, le tastiere di Danny Federici: «Seaside Bar Song», per esempio, o la ruvida «So Young and in Love», e la romantica «Linda Let Me Be The One», che furono registrate quando ancora Bruce non sapeva che di lì a poco sarebbe diventato una star (fu nel '76 che il disco «Born To Run» lo scaraventò sulla copertina di «Time» e di «Newsweek»). Domanda che ci si pone nel secondo ed: quella ballata blues tutta spettinata, con echi di voci indiane, sarà proprio «Born In The Usa»? Era l'82, Bruce stava registrando in casa, su un 4 piste, delle cose che si sarebbero poi trasformate nell'epico «Nebraska»: e in quel materiale c'era anche questa stralunata «Born In The Usa», che poi rielaborata e rimpolpata con la E Street finì per diventare un inno buono per molti usi (ricordiamo ancora il coro che sca- tenò a San Siro nell'85, al primo concerto di Springsteen in uno stadio italiano in delirio). L'evoluzione dal rock ruspante alla maniera degli avi e l'approdo a un sound più mediato e personale è meglio raccontata nel terzo ed con «Cynthia», cacciata fuori dalla track-list di «Born in The Usa». Lo Springsteen della crisi d'amore, quello del travagliato rapporto con una moglie sbagliata, viene su nella confessione di «When You Need Me» e apre il quarto ed con «Trouble in Paradise»: qui ci si ricorda della proverbiale sincerità dell'artista, che conta i pezzi di cuore rimastigli dopo lo strappo da Julianne, troppo bella, troppo fredda, e troppo chic per il vecchio ragazzo (anche se ormai miliardario) di Freehold. L'amore con la corista e chitar¬ rista Patti Scialfa, che gli ha dato tre figli, sbocciò a Torino nell'88, durante l'Amnesty International Tour. Ma questa è già storia dello Springsteen maturo, come il discusso divorzio dalla E Street Band, e come l'ammirevole progetto «Tom Joad» che ha poi impresso alla sua poetica nuove e affascinanti forme creative. L'ultimo ed - che contiene «Sad Eyes», un nuovo brano nato dal ricordo dei trascinanti assolo dei concerti dei '78 - si chiude con «Give it a name», testo di riferimenti biblici che The Boss ha registrato qualche mese fa come ultima testimonianza del lavoro recente in studio, e che fa salire a 27 gli anni ripercorsi da «Tracks». Ma la storia continua. Ora si dice che a dicembre, per meriti artistici e per anzianità acquisita, Springsteen entrerà nella «Rock'n'roll of Fame», accanto ai Beatles, gli Stones, Presley e Berry. A molti, questa promozione appare anche come il tributo doveroso che va concesso a uno dei pochissimi miti che, pur nella sua straordinaria popolarità, sia ancora rimasto semplicemente uno di noi, un vecchio ragazzo sincero e appassionato (ed è per questo che i fans che l'hanno visto in cravatta opporsi, nel tribunale di Londra, alla pubblicazione di suo vecchio disco inedito sono oggi un poco preoccupati). Marinella Venegoni Dal pezzo che Eruttò il fortunato contratto con la Columbia, alla prima versione di «Born in The Usa», alle crisi d'amore per la donna sbagliata
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