Patrizia, in aula l'ultima sconfitta

Patrizia, in aula l'ultima sconfitta Al processo, anche quando ha detto che voleva Gucci morto, ha sempre avuto un atteggiamento assente e annoiato Patrizia, in aula l'ultima sconfitta Neppure alla condanna il volto tradisce emozioni MILANO. Prima che tutto accadesse, sul suo diario, lei aveva scritto: «Molte donne prendono a prestito il cuore di un uomo. Pochissime riescono a possederlo». E 10 scriveva come se esistessero solo queste due possibilità. Ma adesso, nell'aula affollata di Corte d'Assise, ore 17,11, la sentenza che scorre sul silenzio di tutti ci sta dicendo che Patrizia Reggiani - pelle quasi azzurra, occhi segnati dal vuoto, mani intrecciate - aveva scelto, per quel cuore a prestito scaduto, una terza possibilità. Cancellarlo. In cambio di soldi e vita: «Io sono la vedova Gucci, sì?». Soldi e vendetta: «Mi aveva gettato via». Soldi e le due fighe tutte per sé: «Lui non sapeva che farsene». Soldi e sciare a St. Moritz, fare il giro del mondo, armare 11 veliero, volare a Acapulco, offrire pasticcini al St. Andrews, annoiarsi. Soldi e il grande nulla. Come adesso, a guardarle il viso imperturbabile. «... E condanna Reggiani Martinelli Patrizia alla pena di anni 29...». Sul suo viso patinato di nebbia, l'istante passa come un piccolo fascio di luce: capelli a nasconderle la fronte, sguardo fisso e assente come di lontananza, riverberi diafani sulle guance, lieve pulsazione del naso, labbra serrate. Tre minuti prima della sentenza, sedendosi accanto a Giovanni Maria Dedola, il suo legale, e flettendo un poco il collo, ha detto piano due sole parole, soffiate: «Ho paura». Ma anche pronunciando quella piccola confidenza il suo volto di porcellana non tradisce emozioni, meno che mai paura, o almeno apprensione. Nulla. Come ci ha abituato in tutti questi mesi di processo e specialmente nelle due udienze di interrogatorio, quando diceva cose anche tremende («Sì, è vero, lo volevo morto», «Maurizio Gucci era un debole, non valeva niente», «Lo odiavo, sì, con tutte le mie forze», «Fui operata e lui in clinica non venne mai»...) tutto pronunciato con voce rigata dalla noia e occhiate persino scocciate alla corte che non credeva, non voleva credere, non avrebbe infine creduto, che le ragioni del suo odio, così insistentemente confidate a tutti, erano «perciò stesso» disarmate. «No, non sono io la mandante. Sono la vittima». Vittima, questo sì, ma di una vita che a ripercorrerla adesso, e molto lontano da qui, riappare come la più riccamente miserabile che le cronache ci abbiano raccontato. La storia di una piccola donna bella, con gli «occhi viola come Liz Taylor», figlia di una cameriera, poi adottiva del ricco Fernando Reggiani, scuola al Collegio delle fanciulle. Un piccola donna che alle amiche diceva: «Io sposerò un miliardario». E loro, alle sue spalle: «Si fa chiamare Reggiani, ma è figlia di una sguattera». Il miliardario lo conobbe davvero. Timido, alto, introverso, biondo, occhi azzurri, Maurizio, figlio unico di Rodolfo Gucci, padre padrone, di ricchezza smisurata, anche lui ossessionato da un amore morboso per il figlio e per il patrimonio: «Quella vuole solo i tuoi soldi. E' un'arrampicatrice. Se la sposerai io ti diseredo. Né tu, né lei avrete mai una lira dei Gucci». Nulla più di un divieto violato accorcia la strada verso l'affrancamento, e qualche volta fa diventare uomini i figli. E perciò Maurizio, che ne aveva abbastanza di essere figlio, anche se non aveva idea di cosa mettere nel cuore, indossò l'amore proibito e poi - 28 ottobre 1972 - anche il tight da cerimonia davanti all'altare di rose bianche della Chiesa del Santo Sepolcro. In due costruirono il loro mondo a propria immagine. E perciò feste, viaggi, due fighe a riconquistare il perdono del patriarca, che voleva dire soldi, azienda, potere, case acquistate ovunque, in Svizzera, America, Messico, Spagna, sempre da arredare e poi da riarre¬ dare per capriccio o noia. Motoscafi, cutter, crociere e poi il Creole, tre alberi, 63 metri di veliero, «la barca più bella del mondo». E tre ville a St. Moritz. Cinquanta pellicce. Centinaia di scarpe. Gioielli. Casseforti. Conti esteri. E una nuvole di governanti, maggiordomi, camerieri, autisti, cuochi. Vita che si perde e si svuota, man mano che Patrizia e Maurizio ottusamente, la inseguono e la riempiono. Fino al vuoto finale e che lei, durante il processo, racconterà come improvviso. Un messaggio che lui le fece recapitare la mattina del 25 maggio 1985, da un segretario: «Signora, il dottor Gucci le fa sapere che non intende tornare più a casa. Mai più». Separati per sempre e per sempre legati da reciproco rancore. Lui, «il buono a nulla», che prende tutta l'azienda per sé, davvero credendosi uomo e non più figlio, ma in una manciata d'anni la riempie di debiti e progetti sconclusionati, fino a vederla affondare, tra banche e contratti sbagliati e partner che (infine) gliela sfilano di mano, in cambio di una montagna di denaro - 120 milioni di dollari - su cui lui, negli ultimi due anni di vita provò ancora a arrampicarsi. E lei dietro, sulle sue tracce, respirando odio, dicendo al mondo che i cento milioni mensili di appannaggio «erano una miseria». Sempre preoccupata che il patrimonio andasse disperso. Sempre spiando la vita di lui e chiedendo soldi, case, attenzioni. Agganciata, nei pomeriggi vuoti, alla Pina Àuriemma, cartomante da due lire, sguardo veloce, pagata come una specie di dama di compagnia e confidente, amica, compagna di viaggio. E poi complice. Lei, la Àuriemma, che secondo la sentenza, scovò il bamboccione Ivano Savione, portiere d'alberghetto, e Orazio Cicala, pizzaiolo, e Benedetto Ceraulo, disoccupato: la banda più sconclusionata che ci si potesse immaginare, ma capace di architettare un omicidio - tre colpi nell'androne e fuga a piedi - finito in prima pagina sui giornali dell'intero mondo. Patrizia Reggiani - che è entrata per prima in questa storia - adesso entra per ultima nell'aula della Quarta Corte d'Assise. Ha una giacca di pelle con fodera argentata. Gli occhi ancora viola. Non ha ammesso e forse non potrà mai farlo, essendo che di tutte le ricchezze, le restano le più preziose, Alessandra e Allegra, le due fighe, disposte a credere alla sua parola contro quella di tutti. «Non sono io la mandante dell'uccisione del padre delle mie fighe». Sta in scena da innocente («La verità è figlia del tempo») attraversando sguardi e baraonda di fotografi e spinte e concitazioni («Reggiani! Come si sente?») ora che è appena stata giudicata colpevole di aver fatto uccidere un uomo e il suo cuore a prestito scaduto. Per niente. Pino Corrias Solo pochi minuti prima della sentenza ha avuto un attimo di debolezza «Ho paura» Dal matrimonio in frantumi ai timori per i rischi di veder dilapidare il patrimonio la sua vita appare come la più riccamente miserabile che le cronache abbiano raccontato Il presidente mentre legge la sentenza

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