513: «bocciato» il Parlamento

513: «bocciato» il Parlamento La Corte Costituzionale modifica la norma che annullava le dichiarazioni (soprattutto dei pentiti) non ripetute in aula 513: «bocciato» il Parlamento Maggioranza e opposizione: la Consulta fa politica ROMA. Un terremoto. Una riforma della riforma che per il mondo politico (senza eccezioni o quasi) ha il peso di una «controriforma». Una decisione che taglia via un pezzo di legge e la sostituisce con una sentenza, pronunciata «in nome del popolo italiano» dal più alto e autorevole organismo di controllo. La Corte Costituzionale ha stabilito che una parte dell'articolo 513 del codice di procedura penale - quella che annullava le dichiarazioni fatte in istruttoria e non ripetute in aula dagli imputati di reato connesso - è incostituzionale. Dieci righe di decisione, spiegate lungo 94 pagine di motivazione, hanno cancellato la norma varata dal Parlamento un anno fa. Il terremoto scuote il Parlamento dove quasi tutti i legislatori si ribellano, chi con toni pacati ma preoccupati, chi gridando allo scandalo. Le mediazioni e le strane alleanze che fecero nascere quel 513 (su alcuni punti il ppi si alleò col Polo, mettendo il minoranza il governo) sono saltate. Esultano invece i magistrati, con le procure di Milano e Palermo in prima fila. A ben vedere, la sentenza della Corte - arrivata dopo cinque mesi di discussioni al palazzo della Consulta - non è un ritorno al passato. Prima della riforma del '97, infatti, in seguito a un altra verdetto costituzionale datato 1992, se un indagato in un procedimento connesso (categoria in cui rientrano i pentiti) arrivato in aula faceva scena muta, le sue precedenti dichiarazioni accusatorie venivano allegate al fascicolo del dibattimento. E venivano valutate dal giudice senza che i difensori dell'accusato avessero potuto contro-interrogare l'accusatore. Per cancellare questa che veniva considerata un'ingiustizia, il Parlamento stabilì nel '97 che le precedenti dichiarazioni fossero vicever¬ sa nulle se non confermate in aula. Paludirono gli avvocati, insorsero i magistrati, soprattutto perché prima una norma transitoria e poi la Cassazione applicarono la nuova norma anche ai processi già avviati con le vecchie regole. Qualche giudice ricorse così alla Corte Costituzionale, che ieri ha dato la sua risposta. Al sistema pre riforma, dice la Consulta, non si può tornare. «E' manifestazione irrinunciabile del diritto di difesa - si legge nella sentenza - che all'imputato sia assicurata la possibi¬ lità di sottoporre al vaglio del contraddittorio le dichiarazioni che lo riguardano, in conformità al metodo di formazione dialettica della prova davanti al giudice». Niente più pentiti che accusano nel segreto dell'istruttoria e poi tacciono in aula, cniindi, che tanto valgono i vecchi verbali. Ma nemmeno è possibile - e qui la Corte va contro la riforma del '97 - che il silenzio in aula trasformi in carta straccia «elementi di prova raccolti legittimamente nel corso delle indagini prehminari». Scrivono i giudici costituzionali: «L'irragionevolezza e l'incoerenza di tale meccanismo sono di immediata evidenza: l'esclusione delle dichiarazioni rese in precedenza dal patrimonio di conoscenza del giudice risulta infatti rimessa alla concorrente volontà dell'imputato in procedimento connesso e della parte processualmente interessata a impedire l'acquisizione e l'utiliz¬ zazione delle dichiarazioni stesse». Dunque per la Corte la vecchia strada è impraticabile, e la nuova intrapresa dal Parlamento con la riforma del 513 è incostituzionale. Che fare? «Ebbene - è la risposta che arriva dalla Consulta - il meccanismo designato dall'art. 500 comma 2 bis del codice di procedura penale indica la soluzione, offerta dallo stesso ordinamento». Quell'articolo stabilisce che «le parti possono procedere alla contestazione anche quando il testé rifiuta o comunque omette, in tutto o in parte, di rispondere sulle circostanze riferite nelle precedenti dichiarazioni». All'imputato di reato connesso viene così riservato lo stesso trattamento previsto per il testimone. Tradotto dai complicati termini giuridici, significa che d'ora ' in avanti, quando il pentito tace, il pubblico ministero potrà contestargli i «singoli contenuti narrativi» delle precedenti dichiarazioni, che in questo modo non scompariranno, ma entreranno nel processo. A differenza di ciò che accadeva prima della riforma del '97, tutto ciò avverrà davanti al giudice e agli avvocati difensori, che potranno controbattere punto per punto quelle dichiarazioni, facendo a loro volta altre domande o contestandole nel contenuto. Il pentito potrà cambiare idea o continuare a tacere, e tutto quello che accadrà in pubblico dibattimento diventerà elemento di valutazione per il giudice che dovrà emettere la sentenza. Così ha deciso la Corte con una sentenza inappellabile, e così avverrà da oggi nelle aule di giustizia, anche per i processi non ancora conclusi dal verdetto finale della Cassazione. In attesa che il Parlamento faccia la sua prossima mossa. Giovanni Bianconi Al sistema pre riforma, dice la Consulta, non si può tornare. «E' manifestazione irrinunciabile del diritto di difesa - si legge nella sentenza - che all'imputato sia assicurata la possibi¬ scenza del giudice risulta infatti rimessa alla concorrente volontà dell'imputato in procedimento connesso e della parte processualmente interessata a impedire l'acquisizione e l'utiliz¬ Il senatore Cesare Salvi (Ds) e l'on. Gaetano Pecorella (Forza Italia)

Persone citate: Cesare Salvi, Gaetano Pecorella, Giovanni Bianconi

Luoghi citati: Milano, Palermo, Roma