I parchi fanno bene a scienza e tecnologia di Luigi Grassia

I parchi fanno bene a scienza e tecnologia RICERCA DELLA FONDAZIONE AGNELLI I parchi fanno bene a scienza e tecnologia Studiosi e aziende in un ambiente che potenzia le risorse di tutti CRESCONO come funghi, l'ultimo è nato a Ivrea alla fine di settembre, in Italia se ne sono visti comparire una quarantina in vent'anni e diversi fra loro hanno avuto tutto il tempo di avvizzire e sparire. Sono i parchi scientifico-tecnologici, sorti inizialmente in America con lo Stanford Research Park in California e il Research Triangle Park (sulla famosa «Route 128») in Massachusetts e poi proliferati in tutto il mondo sull'onda di quei successi. Da noi sono arrivati fra grandi speranze e anche grandi polemiche, in quanto iniziative meno spontanee rispetto al modello anglosassone, più dirette e finanziate dalla mano e dai soldi pubblici, più orientate a creare o ricreare lo sviluppo dove non c'era (nel Mezzogiorno o nelle aree in declino industriale del Nord) anziché a fare da moltiplicatore in zone dove ricerca e imprenditoria erano già fiorenti. Il bilancio? Lo ha fatto un paio di settimane fa a Torino un convegno della Fondazione Agnelli sul rilancio delle politiche di innovazione ed è ampiamente positivo: non che sia nata una Silicon Valley attorno a ogni piccola Stanford nostrana, ma lo schema base si è rivelato valido e anzi sempre più attuale, grazie all'evoluzione della ricerca dal tradizionale laboratorio chiuso al modello «in rete». Proviamo a chiarirci le idee: che cos'è, in concreto, un parco scientifico-tecnologico? Nel rispondere è meglio tenersi sul vago perché le esperienze sono così diverse da sfidare ogni definizione rigida; ma all'ingrosso si tratta di un'area circoscritta in cui, grazie ad agevolazioni pubbliche e infrastrutture, si insediano centri universitari, enti di ricerca privati e imprese innovative, che sfruttando i vantaggi della prossimità, della circolazione delle idee e della facilià di formazione «fertilizzano» il territorio circostante e fanno da volano tanto all'avanzamento della conoscenza pura quanto allo sviluppo economico, fino a promuovere il marketing dei brevetti. Ma per dare un'idea di quanto questa descrizione sia da prendere con le molle, si consi¬ deri che il «parco» si sta addirittura delocalizzando e ad esempio l'ultimo di Ivrea non è che un punto di snodo, specializato in biotecnologie, della più vasta Tecnorete Piemonte estesa a tutta la regione. Il fatto che la ricerca di punta si faccia sempre più costosa e inaccessibile, persino per i Paesi più ricchi (tanto che i consorzi a livello europeo o mondiale sono ormai vie obbligate) non ha reso obsoleti i parchi locali. Anzi. Si sta affermando una nuova tendenza che si basa sul concetto di modularità: la tecnologia di un prodotto o un design estremamente sofisticati viene scomposta in moduli, che i centri globali dell'elite creativa non hanno interesse né convenienza economica ad adattare alle singole esigenze regionali o nazionali. Questa funzione viene volentieri delegata ad attori locali come possono essere i cosiddetti «parchi utilizzatori» (anziché produttori), nodi della grande rete di ricerca mondiale. Fino al limite dei «parchi virtuali» tedeschi - imitati anche in Italia, ad esempio dal Consorzio Roma Ricerche strutture ultra snelle in cui un pugno di esperti, sfruttando al massimo le tecnologie della comunicazione, segue e seleziona le ricerche di frontiera per presentarle al l'attenzione degli imprenditori. Si può fare un parco anche con quattro soldi e molto cervello. Luigi Grassia Una ricercatrice al lavoro nel Parco del Canavese

Persone citate: Stanford, Triangle Park

Luoghi citati: America, California, Italia, Ivrea, Massachusetts, Piemonte, Roma, Torino