L'Italia (in ritardo) recupera di A. Vi.

L'Italia (in ritardo) recupera L'Italia (in ritardo) recupera ENTRE la Germania già da 15 anni investe sulle biotecnologie a tutto campo (recentemente ha varato un nuovo programma, «Bio Regio», da 150 miliardi di lire, in favore delle imprese) e la Gran Bretagna ha promosso l'«Incubatore di imprese di bioscienze» di Manchester, il resto dell'Europa non si dà molto da fare. Tutto sommato, l'Italia, partita tardi, ha recuperato, piazzandosi dietro la Germania e spalla a spalla con gli inglesi. Le biotecnologie italiane rappresentano, in termini di investimenti nella ricerca, poco meno del 2% del totale mondiale, ma l'Assobiotec è ottimista: le 210 aziende che si occupano di biotecnologie oggi danno lavoro a 4 mila persone per un fatturato complessivo di 1130 miliardi di lire, e nel 2005 si potrebbero superare i 10 mila miliardi. «Sul versante delle biotecnologie in campo agricolo - dice Enrico Porceddu, ordinario di genetica agraria dell'Università La Tuscia di Viterbo e collaboratore del Cnr per il Progetto finalizzato biotecnologie - in Italia numerose multinazionali e industrie sementiere hanno portato avanti negli ultimi anni sperimentazioni sul campo. Le leggi europee prima, e le italiane poi, consentono la coltivazione di piante transgeniche, ma per un motivo puramente burocratico queste sementi ancora non possono essere acquistate dagli agricoltori italiani. E ih questo momento, nel nostro Paese, non esistono coltivazioni commerciali di tali piante». Verso questo tipo di sementi gli agricoltori italiani non si sono ancora pronunciati. Qualcuno, più attento degli altri alle novità, comincia appena a interessarsi della questione, ma la maggioranza ancora non è abbastanza informata. «Come tutti, del resto, in Italia - prosegue Porceddu -. Non c'è chiarezza, la gente non sa di cosa si parla. Il mais geneticamente modificato non ha nulla a che vedere con la pecora Dolly. Inoltre mi sembra che molti oppositori alle biotecnologie, in realtà siano oppositori delle multinazionali. Se gli stessi risultati fossero stati ottenuti da un centro di ricerca statale o da una università pubblica (che, per inciso, fanno queste ricerche), probabilmente l'atteggiamento sarebbe diverso». Quali attenzioni occorrono per tutelare i consumatori? «Innanzitutto si deve verificare che la presenza di un prodotto genico (cioè una proteina di riserva o una proteina funzionale) non sia dannoso in alcun modo per l'organismo. L'altro pericolo è che nella pianta ci sia un prodotto differenziale, dovuto a questo materiale genetico, che si esprime direttamente nel seme e serve a contrastare l'attacco di un insetto o di un fungo al seme stesso. Ma non è il caso del mais o della soia, dove si interviene per combattere un nemico che aggredisce la pianta su foglie e stelo e non sui semi. «L'unico pericolo che posso vedere, è quello della diffusione dei geni modificati attraverso il polline delle piante transgeniche - conclude Porceddu -. Ma nel caso del mais, della soia e del sorgo, e anche alcune piante da orto (melanzane, pomodoro, patate...) che in Italia non hanno i corrispondenti tipi selvatici non c'è una pianta recettiva che possa accoglierli». «Sicuramente la differenza tra Europa e Usa (ma ci metterei anche il Giappone) è marcata», aggiunge Paolo Costantino, direttore del Dipartimento di genetica e biologia molecolare dell'Università La Sapienza di Roma. «Negli Usa le multinazionali sono molto aggressive per poter recuperare rapidamente gli investimenti fatti. C'è poi la Cina: già 10 anni fa in Cina mi offrirono una sigaretta fatta con tabacco transgenico. Cosa fanno loro non lo sappiamo con esattezza. Certo non vanno tanto per il sottile perché hanno un miliardo di persone da sfamare». [a. vi.]

Persone citate: Enrico Porceddu, Paolo Costantino, Porceddu