I mille mondi di Fossati di Marco Vallora

I mille mondi di Fossati Lo studioso d'arte morto a 60 anni I mille mondi di Fossati F TORINO ORSE è quasi dolorosamente simbolico che Paolo Fossati, saggista e studioso delle arti, sia morto a 60 anni senza vedere ultimata la mostra romana su «Valori Plastici», che in fondo nasce ispirata dai suoi studi, come testimonia un suo saggio del 1981. Non che lasciasse caratterialmente inconclusi i suoi lavori, ma nell'ansia di scoprire, di studiare, di amplificare le sue conoscenze, in fondo era il vero studioso che invece di accontentarsi dei risultati pieni preferiva ogni volta reimmergersi nell'avventura del leggere, del rimettere in gioco le sue certezze: assaporando il gusto rischioso dèi «sospeso». Uomo sospeso lui stesso, tra mille interessi e passioni. Aveva incominciato nel '71 a concentrare i suoi studi applicandosi prima all'Immagine Sospesa, cioè all'arte astratta tra il '34 e il '40, poi si era applicato al Design in Italia (proiezione della sua tempestosa radice razional-impegnata). Ma era troppo poco rigido, per potersi accontentare di quella bianca scuola asettica: e attraverso lo studio della Realtà Attrezzata (1977) cioè il riesame della scenografia futurista, aveva infine vissuto il suo personale Richiamo all'Ordine occupandosi soprattutto de La «Pittura Metafisica» (1988, tutti presso Einaudi, il «suo» editore, che gli deve moltissimo). Un titolo, insieme a «Valori Plastici», che riuscì a mettere le virgolette stampate su una copertina, sicuramente scontrandosi con le obiezioni ragionevoli dei grafici. Ma Fossati era tutto in quelle virgolette cocciute, in quella rigorosa presa di distanza dal cosiddetto, in quel distacco un po' rabbioso e insoddisfatto, in quelle scelte «protestanti»: la cultura è un fatto di sfumature, di ottiche leggermente strabiche. Così come la sua opinione, soprattutto nei leggendari «mercoledì» decisionali dell'Einaudi: era sempre originale, imprevedibile, ti sorprendeva a tradimento. Preferiva erodere certezze, piuttosto che lisciare il pelo della convenzionalità. Un'illuminante epigrafe di un suo libro dice: «Nel vasto, nel libero destino dell'arte, la parola costruire ha forse un significato negativo». Citato da Savinio, un eccentrico che lui ha molto amato e che come lui detestava redificazionè accademica. Ecco, lui era amico dei laterali, dei non-prevedibili, degli scomodi: adorava Celine, preferiva Flaiano a tanti pompier, certamente tra i bagliori di un coma che continuava a tormentarlo si sarà felicitato con sé per aver contribuito al giusto riconoscimento di Carol Rama. Lo ricorderemo anche per i volumi atipici da lui concertati, su Melotti, Paolini, Munari. Spesso i suoi saggi ridavano voce a discussioni spente, a polemiche sopite, come faceva lui con il suo parlare roco, arrotolato di parentesi. Certamente la sua influenza (di suggeritore nemmeno troppo occulto) è stata molto più importante di quanto possa immaginare chi sfoglia la sua pur nutrita bibliografia: è stato anche amatissimo docente, impulsivo critico militante, imprescindibile consigliere di galleristi e di iniziative editoriali. Non soltanto per l'arte e per quell'epocale impresa critica (in tutti i sensi) che fu la Storia dell'Arte: ma anche per la letteratura, di cui era vorace, allievo filologo di Avalle. Quello che sgomenta gli amici è che con lui sprofonda una biblioteca viva e rara: e c'immelanconisce sapere di non poterlo incontrare più, sbilenco, ritroso, perplesso e ruggente. Marco Vallora

Luoghi citati: Italia, Torino