Maastricht non è più una prigione di Alfredo Recanatesi

Maastricht non è più una prigione L'Europa si libera dei «parametri» per tanto tempo interpretati con rigore ossessivo Maastricht non è più una prigione COME conseguenza del notevole rafforzamento delle forze progressiste alla guida dei Paesi che compongono l'Unione monetaria europea, si va affermando un crescente orientamento a rivedere la logica del patto di stabilità, ossia di quella sorta di regolamento condominiale che disciplinerà la convivenza di undici Stati autonomi e sovrani nell'unica realtà monetaria dell'Euro. Il patto di stabilità è figlio del Trattato di Maastricht dal quale ha ereditato la tara genetica di un fondamentalismo monetarista al quale si deve il modesto tasso di crescita dell'economia europea in genere e di quella italiana in particolare. Fino a qualche mese fa la tesi secondo la quale la riduzione dei disavanzi pubblici era responsabile del lento sviluppo dell'Europa, e di conseguenza di buona parte della disoccupazione, era considerata eretica, quasi sovversiva. Si passava per sostenitori della disinvoltura finanziaria se si osava rilevare che qualche differenza andava pur fatta tra un disavanzo determinato da spesa corrente ed uno dovuto ad investimenti; se si osava sostenere che una compressione dei disavanzi come quella imposta dai famigerati «parametri» avrebbe rallentato lo sviluppo se contestualmente non fossero aumentati gli investimenti dell'imprenditoria privata; se si osava dubitare che questa imprenditoria privata sarebbe stata capace di riformulare strategie e programmi operativi nei tempi brevi imposti dall'aggiustamento delle finanze pubbliche. Era, per altro, il tempo nel quale su tutta l'Europa aleggiava la cultura della Germania di Kohl, di Waigel e di Tietmeyer, quando bastava che qualcuno mettesse in dubbio la partecipazione alla moneta unica di un Paese perché la speculazione si accanisse sulla moneta di quel Paese, i suoi tassi di interesse aumentassero, la strada del suo risanamento finanziario si facesse più ardua. Era stato messo in piedi un meccanismo tanto perveso che impediva anche la più pacata e ragionata critica. All'affermazione delle forze progressiste in quasi tutti i Paesi dell'Unione monetaria non è estranea la reazione al costo elevatissimo che è stato imposto per la realizzazione dell'Unione stessa. La libertà di critica e di proposta fu recuperata il 2 maggio scorso quando, con lo scrutinio di ammissione di tutti gli undici Paesi all'Unione, i fautori della logica di Maastricht persero il potere di penalizzare con una semplice dichiarazione questo o quel Paese, questo o quel governo, questa o quella parte politica. La vittoria dell'Spd in Germania, poi, ha creato nuovi spazi di iniziativa politica per una revisione del patto di stabilità; tanto che persino D'Alema, nelle sue dichiarazioni programmatiche alla Camera, non ha mancato di iscriversi in questa tendenza dicendo esplicitamente che «sarà necessario definire meglio le modalità di gestione del patto di stabilità». In quale direzione? Quella evidentemente di consentire spesa in disavanzo quando si tratti di effettuare investimenti pubblici produttivi. Come non può essere visto alcunché di male in una im¬ presa che si indebiti per accrescere il proprio potenziale produttivo, non si vede perché ciò debba essere precluso ad una collettività quando vi sia garanzia che il disavanzo non venga finanziato stampando moneta (e questa garanzia c'è ormai da parecchio tempo); quando sia evidente che l'economia privata non provvede all'impiego delle risorse finanziarie liberate dal risanamento delle finanze pubbliche (il che sta nell'evidenza dei dati); quando la somma degli investimenti pubblici e privati rimanga largamente insufficiente ad assicurare l'impiego del potenziale produttivo del sistema economico-finanziario. Il governo francese di Jospin insiste in questa direzione da quando si è insediato; ora trova sponda nel governo tedesco di Schroeder; il governo italiano è forse il più interessato a una revisione del patto in questo senso essendo l'Italia il Paese che ha dovuto pagare il tributo più pesante all'ottuso fondamentalismo monetarista dei «parametri». Un processo di revisione è tanto maturo che persino il cornmissario Monti ne ha caldeggiato l'avvio con una lettera al presidente della Commissione Santer ed al suo collega per le questioni monetarie De SUguy nella quale osserva tra l'altro che «non è il deficit pubblico complessivo che sottrae risorse alla formazione di capitale in una economia, ma quella parte del deficit che deriva da spesa corrente»: una verità sacrosanta che, però, non è tale da oggi, ma lo era anche negli anni passati, quando si discuteva di decimali di Pil e quando sembrava che le misure restrittive non fossero mai suefficienti. Se il cornmissario Monti avesse speso il suo ruolo e la sua autorità per affermare allora questa sacrosanta verità e per contestare il rigore ottuso col quale la logica di Maastricht è stata interpretata, forse l'Unione monetaria avrebbe potuto compiersi senza confliggere con la crescita economica, e forse l'Italia oggi non sarebbe la Cenerentola dello sviluppo. E' il caso, comunque, di dire: meglio tardi che mai. Alfredo Recanatesi

Persone citate: D'alema, Jospin, Kohl, Santer, Schroeder, Tietmeyer, Waigel

Luoghi citati: Europa, Germania, Italia