IL GATTOPARDO INNAMORATO

IL GATTOPARDO INNAMORATO Pubblichiamo l'inedito «Canzoniere di Casa Salina», capitolo incompiuto del capolavoro di Tornasi di Lampedusa IL GATTOPARDO INNAMORATO PUBBLICHIAMO il capitolo inedito II canzoniere di Casa Salina dal Gattopardo di Giuseppe Tornasi di Lampedusa. L'inedito, come spiega Gioacchino Lanza Tornasi, è stato ritrovato fra le carte della principessa di Lampedusa dal ni—I potè Giuseppe Bianchieri. E' un brano di sorprendente attualità: Tancredi, nipote del principe di Salina, è definito militante «nella profittevolissima sfumatura di "estrema sinistra della estrema destra", trampolino magnifico che doveva poi permettergli acrobazie ammirevoli e ammirate». Slogan che potrebbe funzionare oggi per molti politici della nuova Italia. Fanno parte del capitolo inedito l'Ode di padre Pirrone (il gesuita di Casa Salina) di cui pubblichiamo uno stralcio e due sonetti di don Fabrizio. I due sonetti sono stati letti ieri sera al Teatro Carignano di Torino nel corso del dibattito sul Gattopardo condotto dal giornalista Santo Della Volpe, cui hanno partecipato il procuratore della Repubblica di Palermo Giancarlo Caselli, il direttore della Stampa, Marcello Sorgi, padre Pintacuda e Gioacchino Lanza Tornasi. Di UBANTE gli anni che seguirono immediatamente la formazione del Regno d'Italia e prima di quel 1866 che I di questo stesso regno segnò la prima crisi, vaticinatrice di altre maggiori, la famiglia del Principe di Salina raggiunse quel tanto di equilibrio che è dato conseguire in questo fluido mondo. Nel 1863 don Fabrizio compì cinquant'anni e, come saggiamente era d'uso in quei tempi, si considerò vecchio ed irremissibilmente giubilato; giubilato s'intende, per quanto concernesse le manifestazioni erotiche, mondane e anche scientifiche; per quanto si riferisse invece all'«imperium» familiare questo venne anzi piuttosto intensificato che scemato, appunto in seguito al restringimento del fronte di attacco. La principessa Maria Stella seguì anche in questo l'esempio del marito; lo seguì anzi a tal punto da rivestire adtlirittura la uniforme delle vecchie signore di quei tempi; e la si vide soltanto in abiti le cui sete grigio-fumo o foglia-secca scomparivano quasi sotto ampi festoni di pizzi neri; il suo volto nel quale gli occhi ardevano tuttavia di fuoco giovanile, era sempre incorniciato dai larghi nastri della «capote», certificato di nascita che le modiste rilasciavano e che equivaleva alla bandiera che le navi da guerra ammainavano allora quando il fuoco nemico le aveva rese incapaci di manovra. Paolo, il primogenito, il Duca di Querceta, sembrava aver abbandonato, dal punto di vista affettivo, la propria famiglia ed essersi fatto adottare dai propri cavalli; i nomi di questi andavano lentamente mu tando da quelli normanni e cavalle reschi in voga sotto la monarchia borbonica, in altri di risonanza anglo-sassone. «Rufus», col suo appel lativo ad un tempo regio e inglese, segnò la transizione; dopo di lui «Swiftsure» «Destroyer» e «Lady^ Fair» si disputarono gli affetti del giovane patrizio. Sotto manti e nomi differenti essi erano tuttavia sempre le stesse arroganti bestiacce, ombro se e di sangue non sicurissimo che, dimenticando le cure filiali di Paolo, più di una volta posero a repentaglio la vita stessa del loro figliuolo. Durante quegli anni, anche, Paolo si mise a corteggiare una sua cugina Màlvica, Annina; corteggiamento che aveva forse ottenuto l'assenso dei cavalli, ma non certo quello di don Fabrizio che manifestò in quel l'occasione la pregiudiziale siciliana a qualsiasi matrimonio dei figli, pre giudiziale rafforzata questa volta dal logorìo che il nome di Màlvica aveva da tempo esercitato sui nervi paterni. Il corteggiamento finì, pur tuttavia, col trovare la propria stanca foce in nozze contratte qualche anno dopo. Gli altri ragazzi crescevano e maggiori divenivano addirittura uo mini e si arrischiarono in timorose orgicciuole palermitane, o, al massimo, napoletane. Attorno alle signo rine, benché belle e giovanissime, andava accumulandosi quella im palpabile cenere, azzurrognola e te pida, che preannunzia gli zitellaggi. Dopo un lungo fidanzamento, la cui durata era giustificata dalla estrema gioventù di Angelica, Tancredi finì con lo sposarsi ed, onusto dei sacchetti di tela e delle duplici benedizioni gattopardesche e sedariane, viaggiò durante un anno, insieme alla sposa, per tutta l'Europa: Parigi, Baden, Venezia, Londra e Spa videro quella coppietta affascinante e spendereccia; la bellezza, davvero eccezionale, della principessa giovinetta le conquistò, platonicamente, molti cuori schifiltosi; la distinzione maligna e l'arguzia dello sposo indussero a meno platoniche capitolazioni parecchie donne, contesse o servette d'albergo che fossero. Nel frattempo a Villa Falconeri si andavano compiendo grandi lavori di restauro, diretti da don Fabrizio e finanziati da don Calogero, ed al loro ritorno i colombi trovarono un nido nel quale i divani di «peluche» e le figurine di Mireton non riuscivano a nascondere del tutto la nobiltà delle proporzioni antiche, ma fugarono definitivamente le larve ereditoriali e uscierili che troppo a lungo avevano funestato quei luoghi. Tancredi era ancora troppo giovane per aspirare a precise cariche politiche, ma la sua attività e i suoi freschi quattrini lo rendevano indispensabile ovunque; egli militava nella profittevolissima sfumatura di «estrema sinistra della estrema destra», trampolino magnifico che doveva poi permettergli acrobazie ammirevoli e ammirate; ma l'intensa attività politica veniva da lui mascherata sapientemente con una noncuranza e una levità di espressione che gli conciliava tutti. Padre Pirrone si trovò coinvolto in beghe della propria famiglia, complicate e pericolose; siamo lieti di dire che egli seppe districare questi imbrogli con la sag gezza e la bontà che erano da aspet¬ tarsi da parte di un così venerabile sacerdote; e che anzi dalla osservazione di queste miserie umane egli seppe trarre alcune interessanti deduzioni di ordine generale. Il palazzo di Donnafugata continuava ad ergere la voluttà barocca delle sue volute e dei suoi zampilli proprio nel nero cuore della miseria siciliana; sotto l'aggiornata amministrazione di don Calogero Sedara, deputato e sindaco, il comune si arricchiva di scuole edificate unicamente di prime pietre, e di fognature scavate da manifesti. Chevalley di Monterzuolo, lui, aveva ottenuto una promozione ed un trasferimento a Grosseto dopo un anno di residenza a Girgenti e due a Trapani; prima di lasciare la Sicilia era andato a salutare il Principe e ad esprimergli il proprio riconoscimento della sua sagacia. In questo clima di transitoria serenità in casa Salina era fiorita la poesia. Non sembri strano: un secolo fa la produzione letteraria benché scadente, anzi appunto perché scadente, non era, come adesso, distaccata dalla massa dei comuni mortali e riservata ai pochi iniziati ai gerghi ed ai misteri allusivi; molte persone, anche di sommaria cultura concentravano in strofe misuratissime le proprie emozioni, senza aspirazioni editoriali seppur non senza una riposta ansia di eternità come si deduce dalla quasi sempre gelosa conservazione dei testi. Non si vuol tacere che il contenuto della grande maggioranza di tali poesie era di sorprendente oscenità oppure scatologico fino all'asfissia; ma una certa quota di queste opere celate rivela, attraverso pietose inesperienze, un sentimento forte e soave spesso insospettato da chi conosca la biografia o i ritratti degli autori. Leggendo alcune di queste poesie di quart'ordine si ha talvolta la sensazione di incontrare una qualche grande anima che si dibatta in un carcere chiuso le cui mura siano cementate dalla scarna attitudine e dalla mancata consuetudine con i grandi poeti; come, per dirlo in altro modo, un fuoco costretto tra fascine umide che produce molto fumo e pochissima fiamma, senza per questo cessare di essere quel nobilissimo elemento che è; quella medesima sensazione che si prova leggendo i sonetti di Michelangelo o le tragedie di Alfieri; o se si desidera parare i fulmini accademici, leggendo i versi italiani di Milton e di Goethe. Come conseguenza di uno di quegli scherzi creati dai bombardamenti aerei che fanno scomparire oggetti preziosi ma rivelano il contenuto di bugigattoli dimenticati, venne ritrovato, giacente fra le macerie e coperta dal triste calcinaccio dei crolli, una carpetta di grossa carta azzurra recante sulla copertina lo, speriamolo, ironico titolo di Canzoniere di Casa Salina. Essa conteneva uno scarno fascicoletto stampato a Palermo, («pei tipi di E. Pedone Lauriel - 1863») che recava nel frontespizio: «Ode ad esaltazione della Illustre Casa dei Principi di Salina Corbèra ed in celebrazione del cinquantesimo genetliaco di Sua Eccellenza don Fabrizio Corbèra, principe di Salina ecc. ecc, composta e dedicata dal Reverendissimo Padre Saverio Pirrone S.J.». Dopo vi erano numerosi fogli d'ineguale formato e di carte differenti tutti coperti dalla elegante scrittura di Don Fabrizio; una trentina di sonetti (ventisette per essere precisi); inoltre pochi foglietti anch'essi di mano del Principe recanti in calce l'annotazione «opera del caro Tancredi». Qui viene ristampata integralmente l'ode di padre Pirrone, non certo per il suo valore poetico ma perché adatta a lumeggiare l'am¬ biente sociale nel quale il Gesuita fece sbocciare i fiori dimessi ma commoventi della propria retorica. Rincresce invece di non poter pubblicare l'insieme dei sonetti di doh Fabrizio; le difficoltà che gli artigli del Gattopardo incontrarono nel dipanare la complicata matassa prosodica e metrica del suo tempo si rivelarono spesso insormontabili. La maggior parte di questi sonetti che dovevano apparire chiarissimi al loro autore, riuscirebbe del tutto incomprensibile ad un lettore dei nostri giorni tante sono le storture sintattiche, le zeppe e le sillabe in eccesso o in difetto. Poiché si stimerebbe irriverente esporre una figura per tante ragioni rispettabile al dileggio di un pubblico che predilige l'oscurità nella poesia soltanto quando è premeditata e non, come in questo caso, derivata da una patetica difficoltà di espressione, si è preferito esercitare ima severa censura e presentare soltanto quelle poche poesie meno bruttate da tare; esse riveleranno un aspetto inatteso della personalità di don Fabrizio, che si spera lo renda più caro a chi laboriosamente ha peregrinato per le sterili lande di queste pagine. Le poesie di Tancredi sono in numero così scarso che non è stato necessario farne una scelta; esse sono d'altronde di più leggero contenuto e illuminano bene l'aspetto esteriormente affascinante di questo «eroe del nostro riscatto». Il lettore vorrà anche essere indulgente se si è stati costretti ad appesantire il testo con alcune note indispensabili a chiarire le molte allusioni familiari e personali di queste opericciuole. Giuseppe Tornasi di Lampedusa Un brano di grande attualità: Tancredi, nipote di don Fabrizio, milita «nella profittevolissima sfumatura di "estrema sinistra della estrema destra"», come molti politici della nuova Italia s I sonetti di don Fabrizio Compatta e liscia sotto il soldato (acqua alla cisterna sembra un blocco di marmo verde che stia lì, riposto, ultima diga ahrlo di scirocco, lnvece,no.ferune^guosbocco, sefeto si disperde il ben nascosto; inutil scorre e solo un vano e sciocco luccicar della ghiaia è in luce posto. lento scende fi livello e ognorpiù mostra quanto di sconcio, àcido, letale posa sul fondo: fango, vermi e spasmo di sol dì affoga ed ogni trista nostra debilità ch'affiora e che risale; II Quando in un vecèio cuore Amor discende lento procede e fra linièro triste di sepolte sperarne a pianto miste deve aprirsi la strada; e larve orrende di morti affetti sbarran le sue piste, ttinsedia alfine, strappa le sue bende: negli occhi ha sol una beffa ch'offende; non più, com'ebbe, voluttà intraiisle. Tiranno ingioiientù, boia in veccbieza, nonpiùdivitamessomadimorte, suscita pene, orror, vergognaMi. Io soffio, piango, impreco e lui dispressa; mi strada con torture e con ritorte, ciò che salvemfu adesso è miasma, fiero mi seguirà sui neri liti.