Netanyahu, una firma che pare un miracolo di Fiamma Nirenstein

Netanyahu, una firma che pare un miracolo ANALISI Netanyahu, una firma che pare un miracolo I TEL AVIV L 1997 fu chiamato da un grande giornale israeliano «L'anno dell'odio per Bibi». Netanyahu, con la sua maschera gonfia e stanca da cinquantenne invecchiato anzitempo e un'incongrua espressione da duro, appariva ovunque in caricatura. Non c'è memoria di un commento positivo a suo riguardo: tutti, in tutto il mondo, lo hanno circondato da scandali di governo, messo alla berlina per il suo inglese perfetto appreso in troppi anni di permanenza in America; lo hanno dipinto come non affidabile né per gli amici, né per i nemici, soprattutto perversamente avverso alla pace quasi per natura. «Avrei scommesso qualunque cosa che un minuto prima della firma avrebbe cacciato un urlo, avrebbe dato di matto, avrebbe dato uno spintone ad Arafat e sarebbe uscito. Non riesco a credere a ciò che ho visto. Netanyahu che fa la pace. Lo odio talmente che non accetto ciò che ho visto con i miei occhi. Un giorno, forse, dovrò chiedergli scusa». Chi parlava così alla cronista è nella fattispecie un dentista di Tel Aviv, un normale professionista iscritto a «Pace Adesso». Egli rappresenta tuttavia una sindrome generalizzata, un politically correct ormai classico nel mondo. Bibi è certamente l'uomo politico de mocraticamente eletto che più raccoglie antipatia, biasi mi, accuse. Persino sua moglie Sarah, suo padre Benzion, a suo tempo amico di Begin, e i suoi figli sono stati additati alla pubblica riprovazione. Netanyahu, eletto con pochi voti di scarto alle elezioni del giugno '96, quando ancora la ferita dell'assassinio di Rabin era fresca, è stato visto come l'affossatore degli accordi di Oslo, anche se ha fatto votare l'intesa alla Camera, e poi ha sgomberato Hebron. E' stato addirittura indicato come il colpevole oggettivo di quell'assassinio (Leah Rabin stessa è autrice di questa tesi). L'idea che lo slogan su cui fu eletto al posto di Peres, ovvero «Pace nella sicurezza», potesse contenere un aspetto ragionevole, dato che Hamas seguitava a fare morti nelle strade con gli attentati suicidi, non ha sfiorato la stampa israeliana né quella internazionale. E' stata vista come il mero pretesto per negare ad Arafat i suoi diritti. L'«Economist» gli addirittura dedicato una copertina su cui, accanto al suoi i I ha a I copei faccione del premier israeliano, campeggiava il titolo «Il grande sbruffone». Il «New Yorker» gli ha dedicato un ritratto al fulmicotone intitolato «Lo spostato». Netanyahu ha effettivamente creato molte situazioni che contraddicevano il clima dei mesi precedenti: l'apertura di un tunnel nella Città Vecclùa a Gerusalemme; le costruzioni, sempre nella capitale, in una zona particolarmente delicata al confine fra Gerusalemme e Betlemme, Har Homa; e soprattutto, un anno fa, il tentato omicidio del capo di Hamas, Khaled Mashaal, ad Amman. E, fatto basilare, il mondo non può perdonargli che egli abbia riportato al potere, dopo la riconquista del governo da parte della sinistra nel 92, quel 50% più uno della popolazione che non è così colto, che proviene dai Paesi dell'Africa e dell'Asia e non, come i primi pionieri, dall'Europa. Tutto il mondo si è dimenticato che le procedure disinvolte alla Camera erano un appannaggio molto comune presso il governo Rabin; che la frattura senza precedenti fra laici e religiosi è cresciuta specialmente durante quel governo; che la situazione della sicurezza ha raggiunto vette di pericolosità senza precedenti con 200 morti in pochi mesi, sempre allora. Tutti questi guai sono stati attribuiti a Netanyahu, oltre a quelli che dipendono veramente da lui, ovvero una sua mancanza basilare di rispetto nei confronti del mondo arabo e una certa qual sua brutalità nel trattare. Ma tuttavia, non è stato Netanyahu (anche se ha frenato) a portare alla paralisi il trattato di Oslo; è la paralisi di Oslo quella che ha condotto all'ascesa di Netanyahu. Di certo Bibi ha superato alla vigilia di questo basilare trattato di pace attuale la sua enorme diffidenza verso Arafat, la sua sfiducia verso l'opinione pubblica internazionale, la sua autentica fobia verso la possibile perdita del potere: e in questo lo hanno aiutato, per così dire, quelli che l'hanno odiato e quindi spinto. E che ora devono vedere, tuttavia, che il punto della sicurezza non era mia scusa, o un dato caratteriale di Bibi, ma una nuova frontiera su cui anche Arafat si affaccia con grande interesse. Anche i palestinesi possono guadagnarne molto. Fiamma Nirenstein