«Il passaporto italiano un sogno lungo 18 anni»

«Il passaporto italiano un sogno lungo 18 anni» «Il passaporto italiano un sogno lungo 18 anni» LA VIA CRUCIS DI UNA IRANIANA TORINO DESSO la soddisfazione MBApiù grande è quando il poliziotto del controllo documenti apre il mio e mi dice "passa". Ecco, a me dà una grande soddisfazione, quel "passa". Non so se voi potete capirlo. Voi italiani da sempre, dico». Ghasal Ashraf è nata a Torino il 16 aprile del 1980, ma è italiana solo dal 16 aprile 1998. Prima era cittadina iraniana, in quanto figlia di una coppia di commercianti arrivati dall'Iran in Italia vent'anni fa. Ha sempre desiderato la cittadinanza italiana, fin da bambina. Ci spieghi perché. «Perché fin da quando ho capito qualcosa, mi sono sentita più italiana che iraniana. Sono andata all'asilo italiano, i miei primi amici sono stati i bambini italiani. Poi sono passata alle elementari, e lì ho capito che il "pezzo di carta", i documenti, erano importanti. E che c'era una grossa differenza, se eri classificata come italiana o iraniana». Ha subito discriminazioni? «Sì, anche. Perché c'è sempre chi ti viene a dire "ma cosa ci fai tu qui, tu che sei straniera". Ma il peso maggiore erano le conseguenze pratiche. Ad esempio: terza elementare, la mia scuola decide di portarci tutti a Parigi per girare un film con un regista francese, per il bicentenario della Rivoluzione. Un film fatto da bambini, noi eravamo entusiasti all'idea di recitare in un film "vero". Ma io sono iraniana, iscritta sul passaporto di mia madre, quindi o a Parigi ci viene anche lei, o niente viaggio. Dopo mille difficoltà i miei ottengono il visto d'ingresso per la Francia, mi ci accompagnano, ma dopo aver firmato un documento in cui si dice che io partecipo all'iniziativa a titolo privato, e a patto di alloggiare in un albergo che non sia quello degli italiani». E come l'ha presa? «Male. Io volevo stare con le mie amiche e non potevo farlo. Dovevo sempre stare con i miei. Insomma... lì ho capito che ero diversa dalle altre, e non è stato bello. Oggi la prenderei diversamente, ma allora non ci capivo granché». E crescendo? Ha capito quale era il problema? «Ho capito che volevo assolutamente essere italiana anche nei documenti. Questo è diventata una necessità quando ho scelto di fare il liceo linguistico. La mia scuola organizza ogni anno soggiorni di studio all'estero, e ogni volta ci sono state grane. Anche perché un conto è essere americano, un conto è essere iraniano. Le ambasciate chiedono informazioni, vogliono sapere perché vuoi andare da loro, quali città visiterai, quali soldi userai. Le difficoltà di ottenere il visto au¬ mentano, e i tempi si allungano». Facciamo un esempio. Un Paese che le abbia fatto difficoltà. «La Francia nelle scuole medie, lì sono stati molto rigidi: io ero iscritta a un corso di sci al Monginevro, con sconfinamenti in Francia. Perciò, ci voleva il visto e l'accompagnamento del padre. Per fortuna lui è sempre stato disponibile, mi ha aiutata molto, in queste cose. L'anno scorso invece ho dovuto rinunciare ad una settimana in Irlanda. Non avendo ancora compiuto i 18 anni, ci sarei dovuta andare accompagnata da mia madre. Ma lei non poteva mollare tutto e venire. Quindi, niente Irlanda. Infine, grandi difficoltà con gli Stati Uniti». Quando li ha visitati? «Nel '94, dopo una lunga trafila burocratica, e assieme ai miei. Lì ho capito la differenza tra Italia e Usa. Lì ho conosciuto mio cugino, come me nato all'estero. Con la differenza che lui è nato a Los Angeles, e da subito è stato cittadino americano. Io invece a Torino, con tutti i problemi che le ho raccontato». Lo ha invidiato? «Altroché. Lui aveva il suo bel pas¬ saporto blu. Io quello italiano me lo sognavo. E poi lui aveva amici che non si stupivano del suo cognome. Loro sono abituati ai nomi più incredibili, e nessuno di loro si stupiva quando mi presentavo, "piacere, mi chiamo Ghasal Ashraf". Io a Torino per anni ho chiesto alle mie amiche di chiamarmi Arianna, o Chiara, o Claudia. Il mio nome era impronunciabile, ero stufa di sillabarlo e di sentirmi dire "che nome strano, ma da dove arrivi?"». Poi è diventata maggiorenne. E ha scelto di essere italiana a tutti gli effetti. «Io aspettavo con ansia il giorno in cui la Prefettura mi avrebbe chiamato. Quando sono andata a giurare ero un po' emozionata, ma contenta. E non me ne importava più niente del mio nome strano. Avrei voluto dire a tutti ecco, adesso valgo esattamente come voi, ma valevo anche prima. Poi mi è passata la voglia di rivendicare, perché non c'era più mente da rivendicare. E sono andata a studiare un mese a Londra, dove tutti se ne fregano di come ti chiami e da dove vieni». Brunella Giovara A sinistra, un bambino di origine extracomunitaria sui banchi di una scuola italiana. Un'immagine sempre più frequente dopo i flussi migratori degli ultimi anni

Persone citate: Brunella Giovara