INTESA SENZA SCONTI di Igor Man

INTESA SENZA SCONTI INTESA SENZA SCONTI Ma il presidente azzoppato ce l'ha fatta a replicare, pressoché in fotocopia, la storica cerimonia che vide, sotto lo sguardo compiaciuto del garante della pace (lui, Clinton) Arafat e Rabin stringersi la mano. Netanyahu è riuscito con una politica apparentemente disordinata ma in verità fatta di accattivanti chiacchiere e di abili provocazioni, ad inchiodare il cosiddetto processo di pace (l'applicazione degli accordi di Oslo) nell'immobilismo perpetuo. Durante 19 mesi. Ora che il treno asmatico del negoziato ha lubrificato la usurata locomotiva, il primo ministro israeliano potrà vantarsi di aver «salvato la pace» e non saranno in pochi a celebrare il suo «spirito di sacrificio», a lodare il pragmatismo del generale «Arik» Sharon, promosso da picchiatore a ministro degli Esteri. Tenendo a mente che «Bibi» ha battuto Shimon Peres (nelle elezioni seguite all'assassinio di Rabin), con meno dell'un per cento (30 mila elettori) in forza d'uno slogan azzeccato: «Pace con sicurezza», la decisione di imbarcare nel suo kitchen cabinet Sharon, un soldato senza misericordia, ha lo scopo palese di garantire ai fondamentalisti israeliani giustappunto la sicurezza, magari in cambio di «un minimo di sacrifici». Al pari di Rabin, Sharon è un vincente (anche se, nel 1982, in Libano, mancò l'obiettivo primo: l'uccisione di Arafat), solo che Rabin spezzò la sua spada, invitta e spietata, sulla via di Oslo perché aveva capito come la salvezza del futuro d'Israele risiedesse nella pace: «e la pace comporta un prezzo, anche alto, perfino doloroso». Netanyahu, invece, ha sempre pensato che la pace possa essere acquisita con lo sconto; che la sicurezza può aversi prima della pace e che, la pace, si può farla lentamente. «Sono tre gravissimi errori - dice una volta di più Shi¬ mon Peres -, la pace si paga, la sicurezza è una conseguenza e non un presupposto; fare la pace è anche un moto del cuore che presuppone slancio e attenzione. Soprattutto una visione realistica del quadro politico mediorientale». Bene prezioso che, almeno fino ad oggi, «Bibi» non ha mostrato di possedere. O, forse, non l'ha palesato per non perdere il già perielitante appoggio in Parlamento dei partiti della destra estrema. Il processo di pace in Medio Oriente può concludersi felicemente in un modo solo: con la nascita di uno Stato palestinese. Clinton lo sa benissimo, come del resto sua moglie Hillary che, incauta, lo ha detto pubblicamente. Lo sa pure Netanyahu, come lo sa Sharon: rimane da vedere se e quanto siano in grado di spingersi sino a questo punto cruciale. Benché Netanyahu abbia messo in extremis sul tavolo del negoziato, con mano lesta, anche il rilascio di Pollard, la spia israeliana a Washington (spiava in casa del migliore se non unico alleato di Tel Aviv: Clinton ha preso tempo), nonostante tutto quello che s'è convenuto sia accompagnato da sussidi generosi (si parla di almeno un miliardo di dollari per finanziare lo sgombero dalla Cisgiordania), nonostante la spada di Damocle d'un ripensamento sempre possibile di «Bibi», la tensione in Israele si taglia col coltello. Quel che preoccupa non è tanto l'ira dei politici integralisti, quanto il furore dei coloni. Quelli del Gush Emumin, certamente convinti di adempiere a un precetto biblico, e i laici, i neo-coloni dal comportamento squadristico, teleguidati dagli integralisti di Brooklyn. Paradossalmente i fondamentalisti stanno ricreando in Israele quel clima fosco che precedette l'assassinio di Rabin. Le grida degli estremisti, dentro e fuori della Knesset, la furia dei coloni toccano un ner vo scoperto: nella sua breve storia invero straordinaria, Israele ha già corso il rischio d'una guerra civile. Ma allora, lò Stato ebraico era ancora adolescente, e governava un uomo chiamato Ben Gurion, mezzo Cavour e mezzo Garibaldi. A cannonate affondò la nave dei «ribelli oltranzisti» guidati da Begin, e lui rientrò nei ranghi. Oggi è diverso. Il polline dell'odio sparso dai furori ciechi della destra oltranzista che mischia Dio e Cesare, protestando tuttavia quest'ultimo, continua a vorticare nel cielo puro di Gerusalemme. In quanto ad Arafat, ha strappato un punto fuori casa, mentre Netanyahu ne porta via tre: vittoria in trasferta. Il vecchio fedayn è stretto fra l'ira impaziente di Hamas che ancorché ridimensionato minaccia sfracelli, le accuse di una opposizione che conta personaggi come il poeta Darwisch e la opposizione laica, intellettuale che rimprovera ad Arafat di avere accettato l'ennesimo patto leonino. Corre il pericolo, sul filo del vento giallo dell'odio e della paura, che in Israele trionfi l'oltranzismo, l'essenzialismo religioso. Sono giorni difficili: per Arafat, per i palestinesi, ma anche, inopinatamente, per Netanyhau. Ma forse, dopo tanta ira, dopo tanta (falsa) soddisfazione, dopo l'immancabile trionfo di immagine di Clinton, forse dopo tutto questo si comincerà finalmente a ragionare, a discutere sul serio questo strano accordo firmato nel Maryland. La sciando Wye Mills, Arafat quando gli hanno chiesto se fosse soddisfatto ha replicato: «Il presente è in mano a Israele. Il futuro appartiene alla nazione palestinese». La pace non è un optional e neanche un miracolo. La pace è semplicemente il trionfo del buonsenso. Del bene di tutti, specie di coloro che son fanciulli tuttora senza un futuro certo. La Palestina per quanto piccola che sia è abbastanza grande per ospitare due popoli di Dio. Igor Man