Un sabato di gioia e lacrime di Fiamma Nirenstein

Un sabato di gioia e lacrime Un sabato di gioia e lacrime Ancora increduli gli ex nemici LA TENTAZIONE DELLA SPERANZA PGERUSALEMME ASSA l'angelo della pace, e Israele quasi non se ne accorge; e anche la Palestina quasi non se ne accorge. Ma l'angelo se la ride, perché sa che fra qualche ora, quando la televisione avrà compiuto il suo lavoro di predicatore totale, allora quell'ebbrezza messianica che cinque anni fa, nei giorni dei primi accordi di pace rendeva la gente stralunata e ridanciana, tornerà tutto a un tratto; e anche l'ira e la paura torneranno; e anche il pericolo; e anche la speranza dei giovani di diventare tutti europei, o tutti americani, insomma normali. Tutti si sveglieranno ad un tratto e diranno: che cosa è successo, c'è di nuovo la pace? Sarà una pace strana, contro, tutte le previsioni, gestita da parte israeliana da un leader che era stato eletto sull'onda della protesta contro gli accordi di Oslo, un duro che a suo tempo aveva giurato, di fronte agli autobus che esplodevano, di non stringere mai la mano ad Arafat, e che non avrebbe dato un millimetro di sabbia. Venerdì l'aria è satura della preparazione dello shabbat che comincia già a metà pomeriggio: è la festa ebraica in cui i religiosi non guardano la televisione, non sentono la radio, non vanno in macchina, non accendono neppure la luce. Tutto è devozione al Signore. Il venerdì, invece, fino a sera, è il giorno santo dei musulmani. In Medio Oriente si sa, il Padre Eterno è particolarmente attivo, e cruindi la pace ha tempo di decantare fino a stasera. Poi scoppierà. Intanto la radio e la televisione snocciolano da giorni, minuto per minuto, annunci drammatici, particolari degli accordi raggiunti, i commenti in diretta dei coloni disperati; quelli espressi ma volonterosi di alcuni uomini di sinistra; quelli scettici di tanti che, Netanyahu, almeno per ora non lo possono soffrire, dall'una parte e dall'altra. I palestinesi dicono cose molto simili agli israeliani: ci sono quelli distaccati, che non credono più in niente, che ormai si sono disamo- rati di Arafat, e poi ci sono quelli possibilisti. La maggioranza guarda in tv una partita di calcio in Egitto, nessuna immagine di Arafat sullo schermo. Entusiasti, non se ne sente nessuno. La radio però si impenna quando ne esce la voce metafisica dello sceicco Yassin, il capo spirituale di Hamas, che promette a tutti vendetta, morte e attentati terroristici. I coloni, per voce di Aharon Domb, il capo dell'organizzazione che sovrintende ai Territori, ripetono un concetto semplicissimo, che si capisce sarà il pericoloso ritornello dei prossimi mesi sulle piazze d'Israele: «Il nuovo accordo ci mette in pericolo di vita. Esso non è in realtà un vero accordo, è una compravendita che non ci preserva dagli attentati, e non garantisce affatto la sicurezza che Bibi ci aveva promesso quando l'abbiamo eletto. Non dirò mai la parola "traditore" per quello che lo riguarda, perché si sa com'è andata a finire con Rabin. Ma certo, non gli avevo dato il mio voto per vendermi in cambio delle promesse di Arafat. Rovesceremo questo governo». Ma la sua voce è già incredula, perché sa che alla Camera c'è solo un venti per cento di uomini della destra estrama. Domb è un uomo grasso, con dei baffoni rossi: è una persona sincera, e davvero crede di essere uguale agli antichi pionieri dei tempi di Ben Gurion. Non capisce perché oggi debba andargli tanto peggio, non vuole accettarlo. Farà qualsiasi cosa, e ancora di più, è arrabbiato con Bibi perché è lui stesso ad averlo mandato a fare il primo ministro, e gli ha anche pagato l'aereo per andare a Wye Plantation a fare questa pace che va tutta ai suoi danni. Sa anche che i colleghi di Bibi, nel Likud, mentre lo aspettano fanno la voce grossa, ma prima di fargli cadere il governo ci penseranno due volte. E' caldo questo venerdì a Gerusalemme. Il mercato centrale è pieno di gente che compra polli, banane, mazzi di menta per il sabato sera. Qui qualche mese fa le pietre furono bagnate dal sangue di un grande attentato suicida, dai banchi di frutta rovesciati uscivano grida di dolore e maledizioni: «Chi ha visto quelle scene», alza un dito al cielo un venditore marocchino, «non crede più nella forza degli uomini, solo in quella di Dio. Se vorrà fermare la mano dei cattivi, la fermerà. Gli accordi lasciano il tempo che trovano, ma per me vanno bene comunque. Forse Netanyahu riuscirà a tenere la situazione in mano». Al nome di Netanyahu molti scuotono la testa: Netanyahu è ormai un'icona che non sa fare la pace; ma Peres parla da una televisione piazzata sopra un banco di formaggi, e lo loda. Silenziosi, tutti ascoltano: «Il glande santo della pace dice che Bibi si è comportato bene, che la sinistra lo sosterrà, che deve fornirgli una rete di sicurezza per realizzare gli accordi contro i suoi stessi uomini che probabilmente gli voteranno contro in Parlamento». Poi dice anche che però, nella terza fase, quella in cui si parlerà di Gerusalemme, Bibi non è adatto a trattare. Là ci vogliono decisioni fatali che l'attuale primo ministro non può prendere. Ha fatto il massimo per quel che può pretendere dalla sua coalizio- ne. Queste parole suonano come una critica, ma anche come una lode: la gente comincia a pensare che, se Peres è d'accordo, allora forse ci sarà davvero un po' di pace. Un messaggio che arriva immediatamente alla gente è anche quello della probabile liberazione cu Jonathan Pollard, la spia che ha carpito i segreti militari degli americani e li ha consegnati a Israele, e che per questo è in carcere dall'85. In ogni israeliano dorme l'incubo della cattività, in ognuno il sogno scaramantico che nessun destino debba essere definitivo, che si può sempre fuggire. Se Bibi riuscirà a far tornare a casa Pollard e forse anche Azam Azam, l'arabo-israeliano prigioniero degli egiziani, potrà riprendere per la coda molta della popolarità che il popolo del Likud, gente dura e forzuta, per istinto vorrebbe negargli dopo l'accordo con Arafat. Ma c'è anche, in questo venerdì in cui il sole cocente si avvia a tramontare su un Medio Oriente un po' diverso, la gente che, all'entrata del fine settimana, siede nei caffè di Tel Aviv, di fronte al mare e di Gerusalemme. Sono gli intellettuali di sinistra, i cinquantenni che hanno odiato Netanyahu perché aveva posto fine a quella danza di pace che Israele aveva ballato con Peres e Rabin estaticamente. Sono forse soddisfatti, ma di poche parole. Che Arafat possa essere un grande leader lo sanno di già: ha giocato bene, ripetono, ha portato a casa un notevolissimo risultato. Ma quanto a Netanyahu, ci si schiarisce la voce, si accennano solo delle frasi mozze. Insomma, come si fa a dire: «Bibi è stato bravo?». Fiamma Nirenstein Il leader dei coloni «Siamo in pericolo di vita. Cacceremo questo governo» Nei Territori tutti guardano la tv, ma una partita ruba lo schermo ad Arafat Un venditore al mercato: non credo più ai patti, ma forse Bibi ce la farà