Ultimatum di Netanyahu ad Arafat di Andrea Di Robilant

Ultimatum di Netanyahu ad Arafat «Accettate le richieste sulla sicurezza o la nostra delegazione abbandona la trattativa» Ultimatum di Netanyahu ad Arafat Per Israele indispensabile l'accordo sull'estradizione dei terroristi e sulla modifica della Carta palestinese WASHINGTON DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Israele minaccia di abbandonare le trattative di pace nel Maryland e lancia un ultimatum ai palestinesi: ■di governo israetiano, compreso il primo ministro Benjamin Netanyahu, ha l'atto le valigie. Ve. partenza è fissata por le 22 (le 4 di notte in Italia, ndrl. Se ci saranno progressi sostanziali, il primo ministro sarà disposto a rimanere. Altrimenti, no». «Senza il rispetto palestinese dei loro obblighi - precisano gli israeliani -, senza una soluzione per le questioni dell'estradizione dei terroristi e dell'emendamento della Carta palestinese da parte del Consiglio Nazionale Palestinese, non ci sarà alcun accordo». .Alla Wye River Plantation va in scena un dramma che i mediatori americani cercano di smussare: si tratta di teatro - dice una fonte diplomatica - : segno che il negoziato è alla stretta finale, alle scelte definitive e dunque più ardue. Ma non tutti nutrono lo stesso ottimismo. Ieri era finalmente spuntato un «pezzo di carta», un documento complessivo redatto dagli americani che codificava il ritiro degli israeliani dal 13 per cento della Cisgiordania in cambio di un dettagliato piano antiterrorismo (garantito dalla Cia). E fissava una serie di intese aggiuntive - porto e aeroporto palestinesi, estradizione dei terroristi, ecc.. - per l'accordo ad interim sul quale si sta negoziando da una settimana. La comparsa del documento americano aveva creato un grande scompiglio. Fonti palestinesi avevano fatto sapere che Yasser Arafat lo aveva già letto e aveva dato il suo imprimatur. Come a dire: «Tra palestinesi e americani c'è ormai piena intesa. Sono gli altri che puntano i piedi». A quel punto la delegazione israeliana aveva cominciato a scalpitare davvero, sostenendo che non c'era ancora alcun accordo. E che il premier Benjamin Netanyahu era pronto a tornarsene anche subito in Israele se i palestinesi non facevano maggiori concessioni su due punti in particolare. Un bluff? «Niente affatto», aveva risposto una fonte israeliana. «Questa non è una minaccia. Stiamo pensando seriamente all'ipotesi di andarcene. E abbiamo già preparato le valigie». Più tardi il vero e proprio ultimatum. David Bar-Illan, stretto collaboratore di Netanyahu, era anche venuto tra i giornalisti per accusare i palestinesi di aver diffuso «voci e disinformazione» con malizia: «Non c'è accordo sulla questionechiave della sicurezza. Non c'è accordo sulla convocazione del Parlamento palestinese per la modifica della Carta (la parte che parla della distruzione di Israele, ndr). Non c'è accordo sull'arresto dei militanti né sull'estradizione di terroristi». Gli israeliani avevano poi cominciato a dire che i negoziati erano «in crisi», che i palestinesi non avevano fatto nemmeno «concessioni minime» e che gli americani avevano fatto «marcia indietro» pur di imbarcare Arafat. La delegazione Usa comunque ha reagito con durezza nei confronti del minacciato ritiro israeliano. «Noi non tratteniamo nessuno qui - ha aggiunto Rubin, stizzito - Alla fine sono loro che devono decidersi». Il Presidente Clinton, che ha già presieduto a 55 ore di colloqui negli ultimi sette giorni, da parte sua si apprestava a tornare in Maryland in serata (notte in Italia) per un tentativo negoziale in extremis. E re Hussein, che si trova alla Wye Plantation da due giorni, continua a mediare tra i due leader. La trattativa, inaspritasi nelle ultime 48 ore, di certo non è stata aiutata dall'acrimonia, per non dire odio, che permane tra Ariel Sharon, il ministro degli Esteri che guida il negoziato per Israele, e Arafat. Ieri il quotidiano Yediot Ahronot ha riportato una scena emblematica del «dialogo tra sordi» che c'è stato tra di loro. Tema della discussione, il futuro porto palestinese a Gaza. Sharon, che ha una fattoria nel Neghev, dice che si vuole mettere per un attimo nei panni di un agricoltore interessato a importare un trattore attraverso quel porto. Arafat interrompe piccato: «Sono ingegnere, so come si costruiscono i porti. Ne ho costruito mio in Kuwait». Sharon fa finta di niente (pare che lunedì Arafat abbia fatto un cenno di saluto a Sharon, il quale non l'ha degnato di uno sguardo. Da allora si parlano guardando altrove). Dopo un po' Sharon torna a mettersi nei panni dell'agricoltore che deve portare il suo nuovo trattore dal porto alla fattoria: «Secondo me i palestinesi dovrebbero costruire parecchie strade. Io stesso ne ho tracciate tante nel mio Paese». Arafat: «Sono ingegnere, ho progettato strade in Arabia Saudita». E avanti così. Andrea di Robilant Clinton, che era ripartito per la capitale, è tornato in gran fretta al tavolo dei colloqui Il Dipartimento di Stato: noi non tratteniamo nessuno qui, sono loro che devono decidere Clinton, Arafat, re Hussein di Giordania e Netanyahu alla Casa Bianca nel '96