Agnelli: è l'Europa la nuova frontiera

Agnelli: è l'Europa la nuova frontiera L'Avvocato racconta quarant'anni di rapporti con i comunisti italiani e i sovietici Agnelli: è l'Europa la nuova frontiera «D'Alema dovrà guardare a Schroeder, Jospin e Blair» INTERVISTA ATORINO WOCATO Agnelli, davanti al governo D'Alema che sta per nascere, s'è levato l'anatema del Vaticano e il Polo ha alzato le barricate contro Scalfaro. Da parte degli industriali, invece, c'è stata un'inattesa acquiescenza. Come mai? «Direi che praticamente non c'è stata reazione. Quel che sta accadendo era nell'aria da tempo, si sapeva che doveva capitare, è accaduto un po' prima del previsto. A questo punto, realisticamente, da parte degli imprenditori non poteva che venire una presa d'atto». Tutto qui? E una semplice presa d'atto può bastare di fronte a un governo italiano presieduto per la prima volta da un leader post-comunista? Possibile che nessuno, nel suo mondo, le chieda una valutazione dei rischi e delle opportunità per gli imprenditori? «Me lo chiedono, naturalmente. Me lo chiedono da Torino, dall'Italia e dall'estero. E se vuol sapere che tipo di interesse sta suscitando l'evoluzione della crisi politica, le rispondo che non vedo disattenzione, né superficialità. Abituata da cinquantanni a convivere, e in qualche caso a fronteggiare, una sinistra che in Italia è stata anche più forte di adesso, e che ha portato, negli ultimi due anni, i suoi ministri al governo, la borghesia italiana deve ora adattarsi all'idea di un governo guidato dal maggior leader post-comunista. Lo farà, credo, come sempre, con serietà e con senso di responsabilità. Ma al momento, mentre tutto sta per compiersi, c'è una forte consapevolezza che il passaggio è delicato». E lei cosa risponde a chi la interroga sulla novità e le esprime i suoi dubbi? «Se parliamo dell'incaricato, io rispondo così. D'Alema è un comunista italiano, figlio di comunista, formato alla scuola del partito. La sua storia politica e personale è ben nota, lui non ne fa mistero. La sua formazione è quella pragmatica del togliattismo. Che può metterlo in condizione di capire che un buon capo di governo deve fare le cose necessarie per il Paese, non solo quelle che ha in testa. Ma naturalmente può anche indurlo in errore. Inoltre, il partito comunista aveva da solo, fino a qualche anno fa, oltre un terzo dei voti. Mentre adesso la somma dei voti del partito di D'Alema e di quello di Cossutta non arriva a un quarto. La sinistra, in sostanza, per governare, dovrà tenere in gran conto le alleanze: sempre più indispensabili, sempre più decisive in questa stagione politica». Ed è questo che sta determinando il cambio di atteggiamento da parte degli industriali? Lei non avrà dimenticato che D'Alema a Capri fu fischiato a un convegno di giovani imprenditori. «Lasci stare i fischi. Le ragioni della contrapposizione tra il mondo imprenditoriale e quello comunista sono più serie e più antiche, in qualche modo storiche. Il punto di partenza è che il Pei per moltissimi anni è stato in Italia il braccio operativo della Russia sovietica. Noi avevamo in casa la longa manus della più forte potenza comunista. E avevamo davanti, in Italia, il maggior partito comunista dell'Occidente. Metà del lavoro di Ponomariov, che nel Pcus era il dirigente addetto alla cura dei partiti fratelli, consisteva nel dedicarsi al Pei. Oggi invece quel che conta è l'Europa, i rapporti con Bonn, Parigi e Londra. Rapporti che suppongo siano buoni». Dunque, è il timore del legame con l'Urss che, nel '48, fa schierare la borghesia italiana con De Gasperi, contro il Fronte Popolare? «Con De Gasperi e con Sceiba, certamente. E, vorrei aggiungere, con Valletta. Dal '48 in poi in Italia si apre un'epoca difficile. C'è violenza. Il clima da guerra fredda alimenta forti tensioni nelle fabbriche. Subito dopo l'attentato a Togliatti, proprio il nostro Valletta fu sequestrato all'interno di uno stabilimento Fiat. Fu una stagione molto dura. Un clima analogo nelle fabbriche me lo ricorda, in parte, la violenza del terrorismo 30 anni dopo». Ma in questo caso la posizione del Pei è diversa. Anzi, sul terrorismo, c'è proprio una rottura tra il mondo comunista tradizionale e quello clandestino della violenza. E' una rottura che ha qualche conseguenza nei rapporti con gli imprenditori? «Devo essere sincero: non grandi conseguenze. Se vogliamo dire la verità, sul terrorismo, il mondo industriale e quello comunista, pur essendo in parte impegnati nello stesso senso, non sono riusciti a incontrarsi». Avvocato, lei sostiene che al fondo della diffidenza e della contrapposizione degli industriali con i comunisti c'era il forte legame del Pei con il Pcus. Eppure, già a metà degli Anni Sessanta, la Fiat va in Unione Sovietica a realizzare Togliattigrad. «Ma quello fu un investimento industriale e il primo grande progetto realizzato dalla Fiat fuori dai confini nazionali. La politica non c'entrava niente: anche se in Italia era difficile farlo credere». Sta dicendo che i comunisti italiani non hanno mai provato a intromettersi nei rapporti tra la Fiat e l'Urss? «Neppure a pensarci. La Fiat aveva i suoi canali e il confronto con i sovietici fin dall'inizio è stato sul piano strettamente industriale. C'era un punto di contatto logico, quasi naturale, tra un mondo serio, organizzato e gerarchizzato come il nostro e quello strutturato dell'Urss. E per farle capire di cosa si trattava, le racconto un episodio». A che periodo risale? «Sempre all'epoca di Togliattigrad. Vede, noi avevamo mandato lì un gruppo selezionato dei nostri migliori dirigenti, per avviare lo stabilimento. A un certo punto del lavoro, alcuni di loro rientrarono a Torino per un breve periodo di riposo. Li ricevemmo a corso Marconi, per scambiare qualche impressione. Com'è anda- ta, cosa avete trovato di diverso? E uno di loro, prontissimo, con una battuta: si lavora benissimo. Non c'è sciopero, non ci sono sindacati». Lei ebbe modo di conoscere qualcuno del gruppo dirigente sovietico? «Ebbi più di una conversazione con Kossighin, che era allora il capo del governo ed era considerato uno dei riformatori. Era un uomo interessante, attento ai problemi dell'industrializzazione, appassionato anche dei dettagli. Poi, quando smettevamo di parlare di affari, da Kossighin, che l'aveva vissuto in prima persona, mi facevo raccontare l'assedio di Leningrado. Lui era stato capo del comitato statale per la difesa della città e membro del comitato militare al fronte in cui in nove mesi ci furono un milione e mezzo di vittime». Altri incontri? «Sì, in Romania, con Ceausescu. Era uno che era in grado di incutere un terrore palpabile anche ai suoi collaboratori. Non ricordo di avere mai sentito una simile atmosfera di soggezione attorno a un leader. Con me fu molto garbato: l'unica cosa che gli interessava, di un progetto che poi non si realizzò, era avere dei modelli di automobile diversi e più belli di quelli dei russi. Ma l'episodio più curioso mi capitò a Sofia». Con Zhivkov? «Sì, con lui. La Fiat aveva con la Bulgaria un accordo per la produzione di carrelli elevatori. Andai a trovarlo nella sua residenza, fu gentile, parlammo a lungo. Alla fine gli chiesi: "E qui, con i dissidenti, come vi comportate?". "Sono tutti in manicomio", rispose Zhivkov, di getto. Poi aggiunse: "Le pare che uno che si oppone a me possa essere sano di mente?"». E dei leader comunisti italiani, chi ha conosciuto? «Togliatti ho fatto appena in tempo a incontrarlo allo stadio, durante la campagna elettorale del '48. Come si sa, era un forte tifoso juventino, e apparteneva a un'epoca in cui non era pensabile che il segretario e i principali dirigenti comunisti italiani non parlassero con accento piemontese. Ho chiesto di lui varie volte alla lotti: mi raccontava dei pranzi al Cremlino con Stalin». Conobbe anche Longo? «L'ho incontrato una volta in una casa nella zona dei Castelli Romani, dove viveva. Era un comunista formato nel periodo clandestino e della guerra partigiana: esperienze militari di cui portava bene tracce e cicatrici». Berlinguer era un uomo della sua generazione. «Eppure, mi fece l'impressione di un politico distaccato e antimoderno. Non amava le automobili, non guidava, aveva una fede fortissima nel potere del partito. Quando gli espressi le mie perplessità sul compromesso storico, e su un governo fondato in realtà sulla logica del compromesso continuo, replicò in due parole: "Andreotti è l'uomo adatto a guidare quel governo". Il resto, era sottinteso, lo decideremo noi qui a Botteghe Oscure». In quel periodo, come presidente di Confindustria, lei si ritrova come interlocutore Lama. Che rapporto c'era tra voi? «Lama, prima che dirigente comunista, era un grande leader sindacale. Con lui si potevano costruire delle cose. Qualcuna, per la verità, anche sbagliata. Per questo, il rapporto che nacque tra noi era anche personale, oltre che politico. Sono andato a trovarlo a casa poco prima che morisse: ricordo la moglie, rattristata nel vederlo sfigurato dalla malattia. E Lama mi disse in quell'occasione che considerava Cofferati il migliore tra i suoi possibili successori». Dopo Berlinguer e dopo Lama, comincia il periodo del declino del Pei. Lei ha conosciuto anche i leader di quella fase? «Molto poco. Di Natta, si avvertiva la passione per le lettere classiche e la formazione alla Scuola Normale di Pisa. Credo che ne andasse orgoglioso. Occhetto, l'ho incontrato appena». Resta da dire di D'Alema. Che opinione s'è fatta di lui? «Lo conosco abbastanza, anche se l'ho visto poco, e negli ultimi due anni. La prima volta che gli ho parlato, mi è sembrato molto impegnato a mostrarsi competente sui vari problemi italiani, economia, pensioni, istituzioni, giustizia. E ha manifestato una particolare attenzione per le questioni internazionali. Così, dopo qualche tempo, l'ho rivisto una mattina. Eravamo io, lui e Kissinger. S'è discusso per due ore di temi molto interessanti: e D'Alema, in politica estera, dà l'impressione di aver torti ambizioni e capacità di coinvolgere altri leader, come Jospin, Schroeder o Blair. Poi, quando è uscito, ho provato a chiedere a Kissinger: cosa le è sembrato?». E Kissinger? «Mi ha risposto telegrafico: "E' un uomo serio, di qualità. Ma si vede che è uno di quelli"». Avvocato Agnelli, ma dopo la fine del Pei, e dopo che la Russia sovietica è tramontata, quali sono le ragioni di contrasto tra gli imprenditori italiani e il partito dei post-comunisti? «Ci pensavo l'altro giorno, a Mosca. Vede, chi torna lì dopo qualche anno trova che la t'orma, la lentezza, l'appesantimento burocratico sono ancora intatti. Ma la sostanza non c'è più. Ho parlato con Primakov, il primo ministro: mi è parso una persona consapevole di tutti i gravi problemi che il mondo ha di fronte. Qualcuno mi ha raccontato che ha studiato in Medio Oriente, parla arabo e proviene dal Kgb: ho risposto che nel bene e nel male in quel Paese non esiste altra scuola. Poi ho incontrato il leader dei neo-comunisti Ziuganov, che in polemica con Gorbaciov era il capo dell'ortodossia ideologica antiriforma: non conosce D'Alema, ha visto per la prima volta Cossutta un mese fa. Il legame che conoscevamo tra sinistra sovietica e sinistra italiana s'è interrotto. Ed è un punto importante, su cui anche gli imprenditori italiani non possono fare a meno di riflettere». Avvocato, sta dicendo che se D'Alema fa il governo e si presenta in Parlamento, lei come senatore a vita gli voterà la fiducia? «Lo farò con i dubbi che vengono da tutto quel che le ho esposto finora. Ma alla fine, se sarò in Italia in quei giorni, lo farò». Marcello Sorgi Giovanni Agnelli IFOTO DI M. PILONE] TOGLIATTI «L'ho incontrato allo stadio, nel '48 Fu la lotti a dirmi dei pranzi con Stalin al Cremlino» KOSSIGHIN «Attento ai problemi dell'industria Mi facevo raccontare dell'assedio di Leningrado» CEAUSESCU «Incuteva un terrore palpabile anche tra i suoi: mai vista tanta soggezione attorno a un leader» L0NG0 «Si era formato nel periodo clandestino: portava le cicatrici delle esperienze militari» BERLINGUER «Mi sembrava un politico antimoderno Aveva una forte fede nel partito» ZHIVKOV «A Sofìa gli chiesi dei dissidenti e lui replicò "Li ho messi tutti in manicomio"» NATTA «Andava orgoglioso della formazione ricevuta alla Normale di Pisa» «Se il presidente incaricato riuscirà a fare il governo, come senatore a vita voterò la fiducia. Ma con molti dubbi» KISSINGER «Gli ho chiesto che cosa pensa del leader Pds Mi ha risposto "E' uno serio ma è uno di quelli"»