Athletic, la leggenda basca

Athletic, la leggenda basca Viaggio nell'antica tradizione di un club Athletic, la leggenda basca Una squadra che è identità nazionale I RIVALI DELIA J UVE BILBAO DAL NOSTRO INVIATO Non sono rimasti in molti a ricordare il pomeriggio in cui otto piccioni si alzarono dallo stadio S. Mames e si diressero verso 0 sanatorio di Santa Marina, sul monte Avril, ciascuno con un bigliettino legato alla zampa: ogni piccione annunciava a quegli sfortunati, esclusi dal mondo, e qualcuno già condannato a lasciarlo, che l'Athletic aveva segnato un gol e in quella domenica di maggio gli otto messaggi portavano lo stesso nome di goleador: Gainza, il «Piru». Più nessuno in terra basca avrebbe saputo fare altrettanto. Non sono rimasti molti a ricordarlo. Forse soltanto chi, come il padrone di questa cafeteria vicina alle guglie stondate e lucenti del Guggenheim, stava a Santa Marina, negli Anni 40, aspettando ad ogni partita l'arrivo delle colombe che restituivano un soffio di vita. Oggi, con meno poesia, si ascoltano le cronache alle radio private. Bilbao, come ogni città di Spagna, è un posto di innumerevoli leggende metropolitane ma soltanto qui ne ruotano tante attorno al calcio, l'umore segreto che si inlila in ogni anfratto. Calcio che è spettacolo, che è divertimento, che è persino la mistica del S. Mames, «la Cattedrale» dove la gente va per applaudire l'avversario se gioca bene. Calcio che fu la risposta orgogliosa al franchismo persecutore dei baschi e ora è un'identità nazionale, ime abbiamo visto solo a Spalato, quando l'Italia giocò con la Croazia e a Sarajevo si combatteva ancora. L'Athletic non è mai stato un club di politici. Chi, come Iribar, il suo mitico portiere, firmava gli appelli di Harri Batasuna per l'amnistia ai terroristi, lo faceva a titolo personale e le relazioni del suo capitano di oggi, Guerrero, con gli «etarra» si fermano al romanzo di Juan Isasi Urdangarin. Roba di pura fantasia. Ma a Bilbao raccontano che fino agli Anni 80, nell'epoca dell'indipendentismo più radicale e della crescita dell'Età, un po' come facevano gli americani con il baseball per mascherare le spie, per riconoscere un basco gli chiedevano la composizione della «Delantera», la linea d'attacco dell'Athletic negli Anni 50: Iriondo, Venancio, Zarra, Panizo, Gainza. L'Athletic stesso è la leggenda che si vive quotidianamente e si autoalimenta del culto quasi esasperato della tradizione. Perché chiedo - siete rimasti l'ultimo club etnico del mondo, dove può giocare soltanto clii è basco? La risposta: «Non per razzismo o per politica, è per tradizione». Perché rifiutate ancora di mettere il nome dello sponsor sulle maglie? Perché non vi uniformate alle regole del nuovo calcio, una marmellata senz'altra identità che non sia far soldi? «Rispettiamo la tradizione». Non è l'unica ragione ma è bella. Paiono, quelli dell'Athletic (che mantiene il nome inglese, come il Genoa, perché lo fondarono giusto cent'anni fa gli ingegneri minerari e navali arrivati a fine Ottocento dall'Inghilterra), come gli incorruttibili galli del villaggio di Asterix accerchiato dai romani. «Il mondo del calcio va in una certa direzione - dice Jose Maria Arrate, da quattro anni presidente del club, eletto dai 33 mila soci -, noi non possiamo restarne fuori ma ci sono principi ai quali non derogheremo mai anche perché si dimostrano validi: in un secolo non siamo mai retrocessi e solo il Real Madrid e il Barcellona possono dire altrettanto; siamo uno dei due o tre club che chiudono in attivo la gestione e che non hanno una peseta di debiti. Siamo infine l'istituzione culturale, sportiva, politica e sociale più ùnportante della Biscaglia, forse di tutto il Paese Basco. Se siamo tutto questo qual è la ragione per cambiare?». Potrebbe esserci, ad esempio, la previsione che quanto è bastato finora non sia sufficiente in futuro. Dopo la legge Bosman e l'apertura indiscriminata del mercato come si sopravvive con la sola forza dei baschi, che sono due milioni di persone? Un po' testardi, qui sono convinti che ce la faranno. Lo vuole il popolo. L'ultimo sondaggio ha rivelato che il 90 per cento dei bilbaini proibisce la maglia biancorossa agli stranieri e agli spagnoli («Più stranieri degli altri», dice il mio taxista). «Tre anni fa, con la squadra che andava malissimo, qualcuno pensava fosse giunto il momento di aprire le porte - racconta Juanma Velasco, cronista di El Correo -. Poi, con Kernandez come allenatore, sono tornati i risultati e ogni fessura si è richiusa». Dunque resta spazio solo per chi è nato nelle tre province basche spagnole o nelle tre francesi (rarissimi, il più famoso è stato di recente il terzino Lizarazu) oppure in Navarra «perché noi culturalmente consideriamo baschi i navarri, anche se loro non sono del tutto d'accordo», spiega Juan Carlos Latxaga, capo delle relazioni esterne. L'unico strappo ò concesso agli allenatori («Perché il primo fu un inglese») o a chi non è di famiglia basca ma è cresciuto qui, come i figli degli immigrati dell'Estremadura e della Castiglia che venti o trent'anni fa riempiro- no fabbriche e cantieri. Una società chiusa. «Se in Vizcaya nasce un bravo calciatore deve finire da noi», dice Latxaga. Per riuscirci l'Athletic ha costruito una struttura formidabile che è la sua ricchezza. Possiede a Lezama, fuori città, un formidabile centro d'allenamento con sei campi, palestre, foresterie; ha 5 centri periferici più piccoli per evitare ai ragazzini i lunghi spostamenti e rifornisce almeno 150 club della zona di denaro, indumenti, personale tecnico, organizza i corsi per i loro massaggiatori, cura presso le sue stutture chi ha subito gli infortuni più gravi. Non c'è buon pesce che possa sfuggire dalla rete. E' la regola. «E' una questione di sopravvivenza - spiega il presidente Arrate -. Altri club spendono 50 o 60 miliardi per un giocatore straniero e lo faranno sempre di più ora che partecipare alle Coppe europee è diventato la chiave per ottenere i soldi veri. Noi, invece, con quanto incasseremo quest'anno dalla Champions League potenzieremo i rapporti con i club giovanili, miglioreremo le nostre e le loro strutture: se vogliamo restare baschi e mantenere l'orgoglio che ci ha resi grandi, dobbiamo far crescere più talenti e soprattutto non dobbiamo perderne». Anche perché quando l'Athletic va a chiedere un giocatore basco alla concorrenza, il prezzo lievita: Rios, un difensore nato a Bilbao ma cresciuto in Andalusia, è stato comprato per 23 miliardi, la cifra più alta mai spesa da! club, eppure il Betis Siviglia l'aveva offerto al Real Madrid per la metà. «Essere baschi e lavorare con i baschi comporta anche la responsabilità di educare - spiega Latxaga -. I nostri giovani sono quelli che abitano all'appartamento di sotto, i compagni di scuola dei nostri figli, i futuri insegnanti, bancari, operai della nostra società. E noi non possiamo farne degli spostati, se falliscono con il calcio». Il criterio di selezione perciò è molto rigido. A Lezama, sotto la tribuna, hanno ricavato due aule scolastiche: chi non ha buoni risultati a scuola, invece di andare in campo, si ferma con il professore di lingua o con quello di matematica. E per chi non si impegna nello studio la carriera neh"Athletic si interrompe presto. «Guardi quei ragazzi dice Julen Guerrero, il nuovo idolo basco -. Fanno tutti lo stesso esercizio preparatorio, salgono e scendono le scale dello stadio, a 8 anni, a 12, a 16. Ci siamo passati tutti. C'è, qui, come una giocosa religiosità. Molti di noi giovani non parliamo più il basco ma m Vizcaya quando indossiamo le prime scarpe da calcio sappiamo che l'approdo è uno solo». Non è im limite? «Forse. Ma sappiamo di avere un popolo alle spalle e un successo a Bilbao dà più gioia che un trionfo in tutto il resto della Spagna». A maggio c'erano 300 mila persone in piazza per festeggiare il 2" posto in campionato che apriva le porte alla Champions League. «E finché vivremo non dimenticheremo il titolo dell'83, quando al Real bastava un punto e invece perse in casa col Valencia - ricorda Letxaga -. La mia generazione era convinta che non avrebbe mai visto l'Athletic vincere un campionato: la squadra risalì il Rio dalla foce alla città. Sedici chilometri, sulle due rive la gente era come un nuovo argine bianco e rosso. Un milione di persone. Un signore vicino a me disse alla moglie: Guarda sulla barca c'è il chico che abitava al secondo piano. Adesso può capire cos'è l'Athletic per noi». Marco Ansaldo Il 90 per cento dei bilbaini rifiuta stranieri e spagnoli Unica eccezione il tecnico perché il primo fu inglese La «Delantera», mitica linea d'attacco dell'Athletic Bilbao degli Anni Cinquanta: Iriondo, Venancio, Zarra, Panizo e in camicia il bomber Gainza Il S. Mames, col busto al Pichichi, il primo fuoriclasse dell'Athletic, oggetto di omaggi floreali dei rivali