« Non andrò a Kabul a vendicare mio marito»

« Non andrò a Kabul a vendicare mio marito» Dall'Afghanistan avevano invitato i parenti del colonnello italiano a uccidere i due killer « Non andrò a Kabul a vendicare mio marito» No della vedova di Calò ai talebani NAPOLI. La vendetta del sangue è lontana migliaia di chilometri. Ma è una distanza prima di tutto culturale quella che separa i familiari dell'ufficiale italiano Carmine Calò dall'idea di farsi giustizia da soli. A Kabul, dove il 21 agosto scorso una raffica di mitra troncò la vita del tenente colonnello in missione di pace per le Nazioni Unite, la legge islamica rende possibile restituire la morte a chi l'ha data con la violenza. Un'ipotesi che fa rivivere il dolore di quella fine inaspettata nella casa di Eboli dove moglie e figlie non si sono ancora rassegnate. La vedova, Maria Pepe, ha il cuore diviso: «Il perdono no, è impossibile. Ma è impossibile anche pensare di ammazzare qualcuno, pure se si tratta di chi ha ucciso mio marito». L'eco della sharia, la legge che s'ispira al Corano e che consente ai congiunti maschi della vittima (in primo luogo padre, fratello o figlio) di sgozzare pubblicamente l'assassino, arriva nella cittadina salernitana dove Carmine Calò viveva con la moglie e le due ragazze, Ilaria e Manuela. Originario di Gesualdo, un paesino dell'Irpinia, l'ufficiale sperava di tornare presto ad Eboli da Kabul, ultima tappa di una serie di missioni che per conto delle Nazioni Unite lo avevano già portato in Libano e in Bosnia. I due terroristi punjabi sospettati di averlo ammazzato all'indomani del bombardamento americano contro le basi del miliardario saudita Osama bin Laden, sono nelle mani della giustizia afghana. E da Kabul uno degli esponenti del potere instaurato dai talebani, Muhamed Hassan Rahman, offre completa disponibilità ai magistrati italiani che volessero partecipare alle indagini, e ricorda anche che i familiari maschi più vicini alla vittima hanno il diritto di far fuori gli assassini. II padre di Carmine Calò è morto quando l'ufficiale, che non aveva fratelli, era ancora un ragazzo e allora è a un cugino che la legge islamica propone la vendetta del sangue. Giuseppe Calvano, maresciallo dei carabinieri da anni in servizio in Toscana, difende la memoria del cugino ucciso a Kabul e parla di inutile provocazione: «Non vogliamo in alcun modo interferire con le autorità di un altro Paese, ma temo che queste notizie servano ai talebani per creare una sorta di giustizia di facciata». Il maresciallo Calvano non ha dubbi: «Mi sembra provocatoria la proposta di affidare a noi parenti il destino degli uccisori di mio cugino, a persone che, è evidente, né io né la famiglia mai perdoneremo». E l'anziano zio, Antonio Caivano, 84 anni, il fratello della madre che a Gesualdo gli fece da padre, si rifiuta anche solo di commentare una vendetta impossibile. Pure qui il dolore è ancora troppo vivo. Quando il 21 agosto arrivò la notizia dell'agguato, sembrava che per la famiglia si trattasse soltanto di sopportare l'ansia di un intervento chirurgico, senza complicazioni. E invece, nonostante l'ottimismo di medici e colleghi, un'emorragia spezzò a soli 48 anni l'esistenza dell'ufficiale. I parenti maschi che la sha¬ ria autorizza a vendicarsi si sentono lontani da quel che qui appare assurdo. Tocca allora alle donne, quelle che in Afghanistan i talebani hanno ridotto al silenzio, dire che cosa si prova all'idea di poter autorizzare l'uccisione di coloro che hanno ammazzato chi si ama. Oppure esercitare il diritto al perdono che - dice la legge del Corano - consente al¬ l'assassino di tornare subito libero. Sono parole pesate a fatica quelle che Maria Pepe pronuncia, chiedendo alla fine di essere lasciata in pace con la sua sofferenza: «Non vogliamo vendetta, ma giustizia. E non siamo disponibili a perdonare». Mariella Cirillo «Ci sembra solo una provocazione l'offerta di affidare a noi la vita o la morte degli assassini, ma non li perdoniamo» Il tenente colonnello Carmine Calò ucciso a Kabul e due talebani