Se il ministro dice no di Filippo Ceccarelli

Se il ministro dice no Il gran rifiuto, abitudine della Repubblica Se il ministro dice no IROMA N questi casi si dice: «Ci potevano pensare prima». Quando Ciampi (che oltretutto non ha un suo partito) è stato attaccato a freddo da Cossiga con motivazioni alquanto generiche («è anti-democristiano») o pretestuose. E quasi nessun leader ulivista di peso - con l'eccezione di Gerardo Bianco - ha ritenuto di difendere il ministro dell'Economia, o perlomeno di ristabilire la polemica sullo spirito antidemocristiano entro un contesto più realistico e civile. Di qui l'amarezza di Ciampi e il suo evidente, comprensibile disagio a condividere le responsabilità di un governo con chi l'accusa di ogni nefandezza. Di qui il rischio che un ipotetico «gran rifiuto» vada ad aggiungersi ad un repertorio di altri illustrissimi no che hanno segnato - anche loro - la storia politica della Repubblica e dei suoi tanti governi. E subito torna alla memoria lo sdegno di Moro, presidente del Consiglio sconfitto dalle elezioni e da una trama di Palazzo, nel 1968. Poi viene in mente il rifiuto altrettanto sdegnato - ma già più provvisorio - di Fanfani dopo la defenestrazione da parte dei nascenti dorotei alla fine degli Anni Cinquanta. Fuori dell'universo democristiano, un bel caratterino aveva - ed ha ancora, come sindaco di Cosenza - Giacomo Mancini. Era stato più volte ministro della Sanità e dei Lavori Pubblici nei primi governi di centrosinistra. Nel 1973, quando stava per formarsi il quarto governo Rumor, ritenne di poter occupare le Finanze. Gliele negarono. Chiese allora il Bilancio e la Cassa per il Mezzogiorno, ma il psi del suo rivale De Martino non lo difese. E Mancini non entrò quindi nel governo iniziando una terribile guerriglia. Anche Donat-Cattin, altro spiritaccio, non le mandava a dire. Quando nel 1974 invece del Mezzogiorno gli offrirono la Sanità, considerò l'offerta talmente mortificante da rispondere (Oriana Fallaci, che lo intervistò, non specifica a chi): «Io con le garze della Sanità mi ci fascio il...». Con lui c'era da aver paura. Nell'immaginario governativo si deve proprio a Donat-Cattin, nominato ministro nel governo Andreotti-Malagodi del 1972, ma polemico con quella maggioranza, la peggiore dissacrazione: non presentarsi al giuramento al Quirinale. «Stavo dal barbiere» ebbe poi a spiegare. Ma il «gran rifiuto» più prossimo - e più nobile - l'ha fatto l'attuale presidente della Repubblica. Che adesso - guarda caso dovrà anche lui vedersela con le difficoltà di Ciampi. Era infatti l'agosto del 1987, a governo Goria appena formato, quando Oscar Luigi Scalfaro, già ottimo ministro dell'Interno con Craxi, rivelò al Corriere della Sera che la via della riconferma era sbarrata. Per lui c'erano il Bilancio, i Beni Culturali, la Pubblica Istruzione (dove l'avrebbe visto bene il Vaticano), ma il Viminale no. E allora anche Scalfaro pronunciò il suo sdegnatissimo no a De Mita. Gli disse di non costringerlo a non andare a giurare. Sollevò una questione che era al tempo stesso di valenza politica e dignità personale: «Non sono così umile da accettare l'idea che uno, pur di non scendere dal treno, si attacca alla maniglia del carro merci». Così rimase fuori dal governo. Già da allora, si deduce rileggendo le parole del futuro presidente della Repubblica, la politica era prigioniera di «forme personalistiche assolutamente intolleranti». Filippo Ceccarelli E Donat-Cattin non giurò con una bugia: ero dal barbiere

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