Massimo, un «politico di professione» di Luigi La Spina

Massimo, un «politico di professione» RADIOGRAFIA DI UN LEADER Massimo, un «politico di professione» Vademecum per imparare a conoscere il quasi-premier GLI aggettivi sono ormai rituali. Per i benevolenti è competente, serio, autorevole. Per i malevolenti è presuntuoso, antipatico, cinico. Ma anche i gusti alimentari, le passioni sportive e perfino i tic, arrivati fino all'Oscar popolare di Striscia la notizia, formano un'iconografia persino stucchevole. Per non parlare poi della sua storia politica, una collezione di aneddoti vecchi come le barzellette dei piazzisti: il bambino allevato in sezione fino a diventare il più classico dei funzionari di partito, l'amicizia-rivalità con Veltroni, il disprezzo per i giornalisti. Ma aldilà dei tanti luoghi comuni, chi è davvero D'Alema? E, soprattutto, adesso che è presidente incaricato, è possibile, da una radiografia del suo pensiero, prevedere cosa farà se davvero riuscirà a costituire il primo governo a guida postcomunista nella storia della nostra Repubblica? L'operazione è davvero temeraria. Non solo per la sterminata mole di interviste e per la cospicua sua produzione libraria, ma specialmente perché «un politico di professione», quale orgogliosamente si autodefinisce il leader Ds, conosce l'arte che Machiavelli suggeriva al suo Principe, quella, fondamentale, della dissimulazione. Il tentativo potrebbe limitarsi a fornire una cartina di tornasole a futura memoria, da esibire per inchiodare il presidente incaricato «alle sue contraddizioni» di presidente praticante, come la retorica sinistrese amava minacciare una volta. Ma il gusto del sarcasmo, il desiderio di non compiacere l'interlocutore, la sfida del realismo più brutale potrebbe aver tradito la sincerità di D'Alema più spesso di quanto non si possa immaginare. «Che significa cinico? Sono una persona che ha forti convinzioni. Solamente, non scambio i sentimenti con la retorica»: questa sua affermazione, in un'intervista alla Stampa di quasi due anni fa, ci offre un varco. Proviamo ad approfittarne. LA POLITICA. Ha senz'altro il primo posto, nella sua mente ma anche nel suo cuore. D'Alema si compiace di sfidare gli umori antipartito di larghi strati dell'opinione pubblica esibendo come un trofeo curricula professionali che «lo spirito dei tempi» suggerirebbe di avvolgere in un più prudente oblio. Lo fa nei confronti delle anime belle, alle quali ricorda che «non basta dire: avevamo ragione. Ci vuole la forza per fare politica». Lo dice a giudici, industriali, funzionari dello Stato e, persùio, a quelle che considera corporazioni invecchiate nei privilegi, come i notai. Grande rispetto conserva per la tradizione politica dei comunisti italiani. Ma si tratta di un rispetto formale, che deriva, appunto, da un piccato orgoglio professionale. La discontinuità con la linea di Togliatti e di Berlinguer è in realtà forte: basti pensare al suo netto rifiuto per le «vie italiane», per le «terze vie» che affascinano, paradossalmente, più alcuni ulivisti in apparenza lontani da certe vecchie ere- dita. Così si passa dal culto «della diversità» di berlingueiana memoria a quella dell'omogeneità con la tradizione socialdemocratica europea. Dell'impianto storico-filosofico comunista, sembra sopravvivere solo un certo storicismo provvidenzialistico: la fe- de in un futuro necessariamente migliore. Ma d'altra parte, per un politico non è un postulato professionale? LE ISTITUZIONI. «Il compito della mia generazione - sosteneva D'Alema appena eletto segretario del Pds - ò di mettere in grado il mio partito di andare al governo». Ha fatto di più: ha messo in grado il leader di quel partito di essere incaricato dal Presidente della Repubblica di formare il governo. Ma tre anni fa, forse, il leader Pds preconizzava anche il modo con cui sarebbe arrivato a palazzo Clùgi: «In base alla legge, gli elettori scelgono le maggioranze parlamentari, non il capo del governo». Visione profetica o calcolo realistico di uno che conosce il mestiere? Subito dopo la costituzione del ministero Berlusconi ammonì ed è bene ricordarlo ora come un impegno che rassicura: «Lo Stato dev'essere neutrale. Altrimenti, anziché un governo avremo un regime. La Rai deve godere della sua piena autonomia. Poi ci sono gli organi dello Stato, i servizi se¬ greti, le forze di sicurezza, tutto ciò che fa parte dello Stato e non può essere messo al servizio di una parte, perché i governi passano e lo Stato è la sede delle garanzie». L'ECONOMIA. Se è vero che il capitalismo è, per D'Alema, «un modo di produzione» e non «una religione», l'intervento pubblico non dove avvenire nello vecchie forme dell'assistenza statalista, ma in quella «della regolazione del mercato». E' questo uno dei punti più mnovativi nella concezione di D'Alema, non tanto perché sembra piegarsi alla accezione blairiana del welfare tipica del nuovo laborismo inglese, quanto perché è in clamorosa contraddizione con la storia del comunismo italiano. Quest'ultimo, infatti, ha sempre puntato non solo sulla classe operaia, di tatto oggi minoritaria nella struttura sociale, ma sulla alleanza dei produttori, cioè dei garantiti nei confronti delle rendite, del lavoro autonomo. Ora D'Alema punta invece sui «soggetti deboli», giovani e disoccupati, i non garantiti. E con ciò Gramsci, Togliatti e Berlinguer vanno davvero in soffitta. IL COSIUML Davvero freddo, calcolatore, realista e magari cinico dov'essere il politico? E lo deve essere per obbligo o per vocazione? La risposta di D'Alema è meno corrispondente allo stereotipo che lo dipinge: «Un uomo politico non può essere in ansia. E' professionalmente proibito. Dev'essere tranquillo, anche se avrebbe motivo per non esserlo». E a questo punto un'autocritica rivelatrice: «lo perdo la tranquillità sui giornali, e sbaglio». La frase può essere anche spia del rapporto apparentemente masochistico che lega il presidente incaricato al giornalismo, soprattutto quello dei quotidiani. Il disprezzo dovrebbe favorire il distacco, quasi l'indifferenza. E invece D'Alema sembra ne sopravvaluti la potenza arrivando a lamentazioni incredibili, di stampo quasi berlusconiano: «La libertà di stampa è solo contro di me». LA RELIGIONE. «In un sistema politico post-ideologico, c'è un punto dove arriva la politica e uno dove comincia la coscienza individuale». Questa affermazione di D'Alema, pronunciata ben quattro anni fa, testimonia come il laico leader postcomunista si sia posto per tempo il problema del rapporto con il mondo cattolico. Quasi prevedesse i sospetti e i timori che proprio ieri ha avanzato il quotidiano cattolico L'Avvenire nell'imminenza dell'incarico al segretario diessino. Per esempio, si dice disposto a ridiscutere anche la legge sull'aborto, «se non si intacca il principio di autodeterminazione della donna». Certo non bastano queste parole per giustificare il paradosso di Giuliano Ferrara che, una volta, disse: «Berlusconi, che è un buon cattolico, è un uomo laico. D'Alema , che è ateo, è un uomo di Chiesa». La boutade, mia provocazione intelligente, non rassicurerà troppo i vescovi italiani. Ma forse neanche i vecchi laici di casa nostra. Luigi La Spina Nella foto sopra Niccolò Machiavelli A destra il presidente del Consiglio incaricato Massimo D'Alema nel gesto del «fù-fù» il tormentone della trasmissione tv «Striscia la notizia» Nella foto al centro Palmiro Togliatti e, qui accanto Enrico "" Berlinguer