STORIA DI UN PENTITO di Francesco La Licata
STORIA DI UN PENTITO STORIA DI UN PENTITO Caselli e Ciotti presentano «Vita da clan» di Cottino Lunedì 12 alle 18 nella sala incontri del San Paolo (via S. Teresa l/g) presentazione del libro «Vita da clan» di Amedeo Cottino e dibattito sul tema «Collaboratori di giustizia. Efficacia e limiti del pentitismo» con Giancarlo Caselli, don Luigi Ciotti, Amedeo Cottino, Alberto Mittone. Coordina Francesco La Licata. IL Gruppo Abele ha stampato un libro che racconta il cammino interiore di un collaboratore di giustizia catanese, partito dalla cosiddetta «normalità» del delinquere per approdare ad una contraddizione della sua anima che è la condizione necessaria della scelta di collaborare con lo Stato. Il libro, «Vita da clan», è un racconto interattivo fra l'autore, il prof. Amedeo Cottino, che funge da guida nel marasma dell'anima del pentito, e Antonio Saia (detto «Nino»), che accetta di «spogliarsi» consegnando se stesso ai lettori. Bisogna esser grati al Gruppo Abele (e all'autore) di aver scelto un tema - quello dei collaboratori di giustizia - improvvisamente passato di moda e avvertito dall'editoria e dai media persino con una sorta di malcelato fastidio. La presentazione del volume, lunedì 12 a Torino, rappresenta infatti un'occasione (al di là della singola storia di «Nino») per dibatterlo, quel tema. Tante cose sono accadute negli ultimi anni: oggi si tende a rimuovere quelle scelte di strategia investi¬ gativa e repressiva nate dal nuovo fenomeno del pentitismo mafioso. Si credeva che, forti dell'esperienza della lotta al terrorismo, l'azione di contrasto alla criminalità organizzata avrebbe considerato irrinunciabile il ricorso ai collaboratori di giustizia. Così è stato per un certo periodo, ci' \él dopo-stragi, quando lo Stato si trovò alle corde e praticamente in balìa della folle strategia stragista di Cosa Nostra. Si scelse - giustamente - di agevolare, con la cosiddetta legislazione premiale, il ripensamento di ex mafiosi che passavano dalla parte dello Stato. Non è neppure il caso di ricordare come quella strategia si sia rivelata essenziale per scardinare gruppi criminali di cui nulla si sapeva a causa della loro natura di organizzazioni segrete. Buscetta, Mannoia, Calderone, Leonardo Messina e tanti altri consegnarono alla magistratura i segreti più reconditi di Cosa Nostra. Ma non fu, il pentitismo, soltanto un fenomeno da analizzare con la lente della politica giudiziaria. L'abiura di tanti mafiosi ha provocato una vera e propria mutazione genetica e culturale nel popolo di Cosa Nostra. Le confessioni hanno portato alla luce le contraddizioni di una «morale» (falsa e ipocrita) usata pretestuosamente dai capi per esercitare un potere totale, soprattutto di vita e di morte. Improvvisamente tutti abbiamo potuto vedere il «re nudo»: falsi moralisti che facevano uccidere parenti, donne e bambini per poi predicare mai osservati principi di onore e solidarietà. Questo è stato il «danno» maggiore che hanno fatto i pentiti alle mafie. Di questo si dovrà dibattere. Di questo e d'altro, perché - nel frattempo - molte cose sono cambiate. I pentiti sembrano diventati, insieme cori la magistratura, il male peggiore del nostro Paese. Abbandonati nelle loro elementari esigenze di sopravvivenza, quasi a voler disincentivare altri «pentimenti», i collaboratori vivono una stagione drammatica. Del loro stato attuale si sa poco perché i mezzi di comunicazione li ignorano. Il pentito non fa notizia, tranne che non venga scoperto a delinquere di nuovo, Allora se ne parla, ma per dire che sono «sempre loro»: delinquenti ostinati e inaffidabili. All'ombra di tanta indifferenza si sta consumando un processo di estinzione del collaboratore, specialmente del «piccolo» pentito. Uomini, donne e bambini espulsi dal programma di protezione perché ritenuti ormai giudiziariamente «inutili». Senza casa, senza lavoro, senza identità, si chiedono quale sarà il loro futuro. Bambini che non possono andare a scuola perché iscrivendosi ((tradirebbero» il domicilio dei genitori. Di tutto ciò si dovrà parlare: lo Stato non può permettersi di disinteressarsi dei pentiti e dei loro figli. La posta in gioco è la vita di tante persone (mille collaboratori e seimila familiari) che forse adesso non corrono molti pericoli ma domani potrebbero entrare nel mirino dei killer. Quando Cosa Nostra deciderà di rialzare la testa. Francesco La Licata
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