IN TRINCEA
IN TRINCEA IN TRINCEA SEMPRE risponde all'appello, la voce della Bassa, la voce di Giovannino Guareschi così genuina e generosa e innocente, domestica. I film con l'impronta verace di Fernandel e Gino Cervi e le collezioni di storie dove si guatano (e si arruffano) Peppone e don Camillo non «scadono» mai, calamitano, stagione dopo stagione, applausi, passioni, nostalgie. In bianco e nero, e nero su bianco, quell'Italia si ostina a riaffiorare, non di- IN TR NCEA sperde un fotogramma di sé. Tutto è andato in frantumi. E quindi si fa la coda per entrare (rientrare) nel mondo piccolo, una sorta di eden, la culla, se non di una possibile felicità (la poesia), di una rassicurante prosa quotidiana. Qual è il miele, il richiamo, l'unguento offerto dal bastiancontrario emiliano? Lo si afferra sgretolando la corazza politica entro cui, di solito, pigramente, vengono sacrificati il prete nodoso e il sindaco bilioso. Guareschi, a mano a mano che l'acqua scorre sotto i ponti (il suo Po), depone i panni ideologici: ora alfiere quarantottesco ora alchimista malgré lui del compromesso storico. Altra la testimonianza del signor «Candido». La sfida che lo innalza vede opposti moderno e antimoderno, l'anima e la materia, il sacro e il profano, la fantasia e il servaggio, il carattere e la pavidità, Dio e la dittatura tecnocratica. Non esitò ad avvertire (e a denunciare, di racconto in racconto, di articolo in articolo, poco importa, infine, se talvolta deragliando) il tonfo dei valori, le tarme che avrebbero, che già avevano cominciato a rosicchiare la pianta uomo. Un reazionario, Giovannino Guareschi? Una diga, un argine, una trincea. Felicemente radicato nelle biolche. Appostato lungo il grande fiume, le mani dietro la schiena, il filo d'erba fra i denti, lo sguardo pieno di compassione e di educato scherno verso chi non capisce, chi affoga credendo di saper nuotare. Riappare, Guareschi. Un'immaginaria barca lo conduce a Torino, sfiorando i barconi dei sabbiatori pavesiani che «risalgono adagio, sospinti e pesanti: / quasi immobili». Non c'è la nebbia. Ed è un peccato, un aristocratico biglietto da visita che la città ancora non può esibire: «La nebbia, hai in mente la nostra nebbia? A Torino? E quel suo odore, il più fine del mondo - come assicurava Giovanni Arpino. - Quella di novembre è la migliore». Già, se Guareschi fra un mese volesse tornare... Ma allora, nella Bassa, avvolti nel tabarro, Camillo e don Peppone in chissà quali tenzoni e fumi e boscacci si rinnoveranno, affineranno la robusta misura di sé, a prova di tempo. Brano Quaranta
Persone citate: Gino Cervi, Giovanni Arpino, Giovannino Guareschi, Guareschi
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