TROPPE, QUATTRO ORE? di Sandro Cappelletto

TROPPE, QUATTRO ORE? TROPPE, QUATTRO ORE? GLI dei e gli eroi del Walhalla vengono avvolti dalle fiamme, Hagen è precipitato nel fiume, trascinato dalla propria cupidigia. Il fuoco attende anche Brunnhilde, dopo che ha reso omaggio al corpo di Siegfried, l'eroe puro, ma troppo umano per sopravvivere alla perfidia di chi vuole possedere. La catastrofe di un equilibrio ne genererà altri: il motivo della redenzione d'amore schiude, dopo il crepuscolo, l'aurora di un mondo nuovo. L'anello dei Nibelunghi, ritornato nel grembo del Reno, apparterrà un giorno a diversi padroni, uomini finalmente liberi. Concepito come terza e conclusiva giornata, «Il crepuscolo degli dei» chiude (dopo «L'oro del Reno», «La Walkiria» e «Sigfrido») la Tetralogia. Come suggeriscono le date di composizione, Wagner iniziò proprio dalla fine: i primi abbozzi del poema del «Crepuscolo» risalgono all' ottobre del 1848, anno dei moti rivoluzionari europei ai quali il compositore trentacinquenne partecipò tanto attivamente da meritare mandati di cattura internazionali. Come è possibile in una struttura coesa, circolare più che rettilinea, gli estremi si toccano, l'esito rimanda all'avvio. L'opera debuttò a Bayreuth il 17 agosto 1876, nel nuovo teatro, il Festspielhaus, che Wagner aveva ritenuto indispensabile al proprio progetto: orchestra e direttore invisibili, attenzione concentrata sulla scena da parte di un pubblico disposto come in un anfiteatro greco e non più nel tradizionale teatro all'italiana, diviso tra platea e vari ordini di palchi, specchio di una società che anche mentre sta seduta all'opera riproduce le proprie divisioni, i diversi privilegi. Poiché la Tetralogia è concepita come un insieme, quattro giorni prima, coerentemente, era stato «L'Oro del Reno» ad inaugurare quel ciclo di rappresentazioni. Allestire un dramma musicale in forma di concerto è prassi ormai consueta, giustificata da ragioni di risparmio e dalla scarsità di titoli operistici proposti dai nostri enti lirici. Wagner non l'avrebbe tollerata (l'opera d'arte totale da lui concepita non può esistere senza rappresentazione), ma non poteva prevedere le difficoltà attuali dei teatri d'opera: Ludwig di Baviera, suo infaticabile mecenate, appartiene ad una specie di fatto estinta. Ma quale motivo, certamente non musicale, ha indotto a presentare questa edizione torinese del «Crepuscolo» divisa in due serate, separazione che non avverrà alla Scala il prossimo 7 dicembre, quando lo stesso titolo inaugurerà la stagione milanese? La tecnica wagneriana del comporre coniuga memoria e sviluppo, ricordo di un ascolto e sua metamorfosi; anche il ricorso al leit-motiv è stratagemma utilissimo per offrire dei richiami, per rendere visibili delle boe nell'oceano del procedere narrativo. Un progetto teatrale e psico-acustico così consapevole da consentire talvolta delle citazio¬ ni di un motivo soltanto parziali, eppure sufficienti a far riaffiorare alla mente il luogo, il momento, il personaggio che si è voluto riportare in primo piano. L'idea stessa di mettere in scena il mito, che «abolisce i legami con i contingenti fatti storici», deriva dalla decisione di inseguire «l'unità drammatica», anticipazione profetica di quel flusso di coscienza che, cinquant'anni dopo, troverà la propria dimensione letteraria nell'«Ulisse» di James Joyce. Perché questo progetto diventi esperienza d'ascolto, le sue inseparabili parti non vanno scisse. La pretesa di Wagner era che il tempo del proprio teatro potesse sottrarsi alle contingenze delle abitudini, delle convenzioni. Sandro Cappelletto

Persone citate: Hagen, James Joyce

Luoghi citati: Baviera