Un cocktail di farmaci abbassa la pressione

Un cocktail di farmaci abbassa la pressione IPERTENSIONE Un cocktail di farmaci abbassa la pressione LM ipertensione arteriosa è uno dei maggiori fattori di rischio di malattia e di mortalità cardiovascolare, provocando nel tempo, in modo insidioso, gravi complicanze a livello cardiaco, cerebrale e renale. Nessun dubbio, quindi, sulla necessità di un trattamento, comportamentale e farmacologico. Controverso è invece quale sia il livello di pressione arteriosa che è conveniente ottenere per scongiurare, o limitare al massimo, i danni legati allo stato ipertensivo. Basta portare la pressione diastolica (la «minima») intorno ai 90 millimetri di mercurio (mmHg), come ritenuto finora, o vi potrebbe essere un ulteriore vantaggio scendendo a livelli più bassi? Ma in questo modo non vi è il rischio di incorrere nella temuta «curva J»? Fenomeno, questo, adombrato da alcuni studi, per cui riducendo eccessivamente la pressione arteriosa si assisterebbe, in pazienti già affetti da insufficienza coronarica, a un aumento della mortalità per infarto, probabilmente per un'ulteriore diminuzione di flusso sanguigno coronarico. Per far luce su questi interrogativi si è svolto lo studio Hot (Hypertension Optimal Treatment), che ha coinvolto quasi 19 mila pazienti ipertesi (di cui 2700 in Italia), studiati per quasi quattro anni in 26 Paesi (europei, nord e sudamericani e asiatici), sotto il coordinamento dell'Ostra Hospital di Goteborg, Svezia. L'obiettivo primario è stato indagare, per la prima volta, quale fosse il valore di pressione diastolica da raggiungere col trattamento antipertensivo (uguale o inferiore a 90, uguale o inferiore a 85, uguale o inferiore a 80 mmHg) per ottenere la maggiore riduzione della morbilità e della mortalità cardiovascolare. A questo scopo i pazienti sono stati suddivisi in modo casuale in tre gruppi, di circa 6200 soggetti ognuno, con un «target» di pressione arteriosa diastolica diverso (appunto 90, 85 e 80 mmHg). Con un'ulteriore randomizzazione in doppio cieco (cioè ignota sia allo sperimentatore, sia al paziente) è stata somministrata a una metà dei partecipanti allo stuaio una piccola dose (75 mg al giorno) di acido acetilsalicilico (aspirina), mentre all'altra metà veniva data una compressa di sostanza inerte (placebo). Lo scopo di quest'indagine collaterale era valutare possibili ulteriori vantaggi nella prevenzione di eventi coronarici associando alla terapia antipertensiva un antiaggregante, quale appunto l'aspirina. Al momento dell'arruolamento la media della pressione arteriosa diastolica era di 105 mmHg. Il primo farmaco utilizzato è stato un calcio-antagonista, la felodipina, a cui venivano man mano associati altri farmaci ipotensivi (ACEinibitori, beta-bloccanti, diuretici) fino al raggiungimento del traguardo prefissato. Lo studio Hot è stato concluso il 31 agosto del 1997 e i primi risultati sono apparsi su «Lancet», nel giugno di quest'anno. Viene riferita una riduzione media della pressione diastolica di 20-25 mmHg, con valori al di sotto di 90 mmHg in oltre il 92% dei pazienti: risultato mai osservato nei precedenti studi di terapia antipertensiva. La morbilità e la mortalità cardiovascolare sono risultati inferiori di circa il 40% rispetto a quelle riportate dalle metanalisi degli studi precedenti. I maggiori benefici si sono ottenuti nei pazienti che avevano raggiunto valori di pressione diastolica tra gli 80 e gli 85 mmHg. Particolarmente beneficiati sono risultati gli ipertesi diabetici, essendosi avuto tra coloro la cui pressione diastolica era stata portata al di sotto degli 85 mmHg un dimezzamento (meno 51%) dell'incidenza di eventi cardiovascolari. L'aggiunta di 75 mg al giorno di acido acetilsalicilico ha ridotto (ma solo in coloro che avevano raggiunto un buon controllo pressorio) l'incidenza di infarto miocardico del 36%, dimostrando per la prima volta l'utilità di una simile associazione, pur al prezzo di un aumento di episodi, peraltro non gravi, di sanguinamento gastrico e nasale. Contraddicendo il vecchio concetto secondo cui una terapia antipertensiva aggressiva tende a peggiorare la qualità della vita, i soggetti che hanno raggiunto livelli inferiori agli 85 mmHg hanno riferito di sentirsi meglio e di avere un umo¬ re migliore. Tanto da far ipotizzare che un trattamento adeguato e precoce possa prevenire il declino cognitivo legato allo stato ipertensivo. Lo studio non chiarisce la spinosa controversia dell'esistenza della curva J, per cui viene ribadita l'opportunità di usare cautela (molta gradualità) nell'abbassare la pressione diastolica sotto gli 85 mmHg nei pazienti con cardiopatia ischemica. Questo studio ha anche dimostrato che associando vari farmaci e procedendo per gradi è possibile ridurre di molto la percentuale dei resistenti alla terapia. I risultati dello studio Hot avranno una notevole eco nella pratica clinica, considerando che attualmente in tutto il mondo, Italia compresa, la percentuale dei pazienti trattati la cui pressione diastolica è al di sotto dei 90 mmHg non supera il 20-25 per cento. Antonio Tripodina ""•■«■••IH,,,,,,, Qui a destra uno sfigmomanometro apparecchio per misurare la pressione, già inventato nel secolo scorso L'ipertensione è oggi uno dei maggiori fattori di rischio di malattie e mortalità cardiovascolare

Persone citate: Antonio Tripodina

Luoghi citati: Italia, Svezia