FRATELLI COLTELLI SENZA RIVOLUZIONE

FRATELLI COLTELLI SENZA RIVOLUZIONE FRATELLI COLTELLI SENZA RIVOLUZIONE Sinistra che fallisce, sinistra che tradisce IN Italia, ogni volta che si è pensato che il realizzarsi di un disegno rivoluzionario fosse appena dietro l'angolo, un sospetto ha tenuto in ostaggio i pensieri più segreti dei militanti. Questo sospetto, che talvolta nel fuoco della polemica rivestiva i panni della certezza, era dato dall'opinione piuttosto diffusa che gli ostacoli più insidiosi posti sulla strada della marcia sul quartier generale del potere, non provenissero dall'avversario. Al contrario: per un inspiegabile paradosso che le vicende storiche e politiche sembravano ribadire ogni volta attraverso infinite variazioni, gli ostacoli decisivi frapposti al successo parevano giungere dall'interno delle proprie fila, da dentro il movimento rivoluzionario. Così lo stereotipo della rivoluzione fallita - o forse mai neppure realisticamente pianificata o tentata con determinato rigore - a poco a poco ha rinunciato ad essere una specie a sé, presenza plasmata nel crogiuolo dei fatti, con la propria storia e le connotazioni che tempi e luoghi e modi potevano assegnarle. La «rivoluzione fallita» - fosse quella del 1848 dei democratici milanesi o quella dei mazziniani della primavera del 1870, i della pimavea d 0, l'occupazione delle fabbriche del settembre 1920 o quella del luglio del 1948 accesa come reazione al fallito attentato a Togliatti - spiegava invariabilmente ai propri adepti la ragione del suo scacco additando la maschera, a lei stessa somigliante e tuttavia specularmente opposta, della «rivoluzione tradita». Il passaggio dall'una all'altra avviene per semplicissimi passi. Il primo passo è riassunto da Medardo, nelle pagine del Visconte dimezzato di Italo Calvino: «nulla piace agli uomini quanto avere dei nemici e poi vedere se sono proprio come s'immaginava». Il secondo passo è immediatamente conseguente: immaginarsi nemici pressoché eguali a se stessi - con una storia politica e frequentazioni umane ed ideologiche che si sovrappongono e si confondono, tranne parzialissimi segmenti, alle proprie - non è solo estremamente facile. Ma, anche, è gioco di vertiginoso appagamento: in quanto oltre a dare al nemico un volto realistico, in quanto ben conosciuto e fraternamente frequentato nel passato prossimo più recente, permette di soddisfare quel primordiale bisogno di espellere il «diabolico» che sta in noi. Attribuendo il male, e dunque gli errori, gli scacchi e perché no? i tradimenti, agli altri che ci sono più immediatamente vicini. La teoria dei complotti - che da tempo immemorabile è tra gli ingredienti principali del gioco del potere - ha fatto di questa intuizione, sulla quale tanti si sono soffermati, da Machiavelli a Popper, dalla Arendt a Girardet, uno dei cardini del suo funzionamento. E tuttavia, nonostante non manchino certG le ricostruzioni storiche e le sistematizzazioni sulla teoria dei complotti, dai tempi più lontani della caccia alle streghe a quelli più vicini dell'eliminazione del nemico/amico durante le grandi bufere rivoluzionarie che scuotono la Francia della Rivoluzione o la Russia di Lenin e di un Regno unito, Roma ne è la capitale ma - ad esempio Mazzini e Garibaldi nonostante i capelli bianchi battibeccano con virile furore l'uno contro l'altro: «queste parole di Mazzini - dichiara Garibaldi dopo l'ukase con cui il leader repubblicano gli chiede di mollare l'Internazionale - i mazziniani le chiamano concilianti. Io ho pensato di occupare il mio tempo in cose utili». «Non so s'io faccia o scriva molte cose inutili - gli risponde Mazzini - ma certo non farei la più inutile di tutte, dare consigli al generale Garibaldi». I rivoli di fraterno furore intanto - parlano con volti di¬ Stalin, pochi si sono soffermati sulle specificità che la storia italiana sembra offrire in proposito. Tra i pochi, come ricorda Fabio Cusin nella sua Antistoria d'Italia, c'è certamente Carlo Cattaneo che facendo i conti con la rivoluzione fallita del 1848 coglie in tutte le sue variegate presenze questa velenosa filigrana di «fraterno odio» (o se si vuole, seguendo un luogo comune molto diffuso, di «fratelli, coltelli»), che pervade tutto il fronte degli artefici dell'unità nazionale facendo di ognuno di essi, i più vicini ovviamente, il capro espiatorio dei fallimenti collezionati decennio dopo decennio dai loro compagni d'armi. Gli cani, dai tempi della fallita rivoluzione del '48, passano ma gli odi tra i fraterni nemici restano. L'Italia diventa versi, attraverso nuovi personaggi e diventano torrenti in piena, traboccanti ostilità e sospetti ad ogni tappa. Si fonda nel '21, scindendosi dai socialisti, il nuovo partito comunista d'Italia? E Togliatti spiega chi era il nemico di allora, i compagni politicamente più vicini all'ala neo-comunista: «Noi combattevamo a fondo Turati e Modigliani ma Serrati, noi lo odiavamo. L'ostacolo principale non erano i riformisti ma il centralismo massimalista». Verranno immediatamente altri odi e opposizioni - a cominciare da quella BordigaGramsci, e, naturalmente, altre «rivoluzioni fallite». C'è un testo, più paziente che geniale nel suo articolato e piatto esplorare tutta la storia «a rovescio» delle rivoluzioni mancate che si sono succedute nel nostro Paese dall'Unità d'Italia ad oggi, che ha avuto un grosso impatto trent'anni fa, sulla generazione che, appena ventenne, approdava alle Università. E, da qui, spesso, alla contestazione studentesca e alla militanza politica. Questo testo - ormai dimenticato dai più - è Proletari senza rivoluzione di Renzo Del Carria e viene pubblicato, nel 1966, dalle «edizioni oriente» di Milano. Per queste edizioni, solite riversare le traduzioni in italiano di tutti i testi più o meno rilevanti del presidente Mao nonché le noiosissime diatribe che opponevano allora il partito comunista cinese a quello russo e a quello italiano, arriva una sistematizzazione storiografica che, seppure estremamente rozza, farà da stampo originario a numerosi lavori e ricerche. Sono quelli di una generazione di storici che farà della «rivoluzione tradita», all'interno del più vasto affresco dell'Italia come Paese dei complotti, uno dei più affollati osservatori sull'ultimo mezzo secolo di storia patria. Parlare di tradimenti, e di rivoluzioni «sfuggite per un pelo», esime molti dall'affondare il bisturi sui caratteri più persistenti e originari di un Paese che di sommosse e insurrezioni abbonda. Ma rivoluzioni non ne ha mai avute. O, meglio, non ne ha mai voluto avere. Oreste del Buono Giorgio Boatti Dai battibecchi tra Mazzini e Garibaldi (die divisioni tra riformisti e massimalisti socialisti e comunisti: ogni volta si preferisce gridare al complotto Giacinto Menotti Serrati, il leader del massimalismo socialista Testi da leggere Italo Calvino Il Visconte dimezzato Einaudi editore Renzo Del Carria Proletari senza rivoluzioni edizioni oriente Milano 1966 Zeffiro Ciuffoletti Retorica del complotto // Saggiatore Milano 1993