PAPA WOJTYLA

PAPA WOJTYLA Da vent'anni alla guida della Chiesa: un protagonista solitario, il più assetato di verità fra i responsabili dell'Occidente PAPA WOJTYLA Straniero nel secolo |j bastato che il Pontefice si / recasse nella Polonia natale, poco dopo l'elezione del conclave nell'ottobre '78, I perché la falsa religione messianica del comunismo si disfacesse. Non era stato necessario un Papa armato, alla testa di eserciti affamati di vendetta: Stalin aveva sfoggiato un'ironia futile, quando scherzò sulle divisioni inesistenti dei successori di Pietro. Era bastata una sola parola - quasi un soffio di vento, un mormorio che fuoriesce subitaneo da pozzi di silenzio: «Non abbiate paura!» - e le sicumere del potere totalitario si scompigliarono tutte. Fu la locuzione magica con cui il Papa inaugurò il regno, nel '78. Non abbiate paura, insistette poco dopo a Varsavia, e subito si capì che la forza del comunismo era ormai tutta qui: nella paura che incuteva, di cui si nutriva. Il muro di Berlino doveva cadere e l'Urss disgregarsi, il giorno in cui svanì nei popoh' la paura che il comunismo aveva studiosamente seminato, coltivato, trasformato in pianta invadente, carnivora. Non c'era nient'altro che nuda paura, dietro i villaggi Potèmkin che il marxismo reale aveva edificato. Bastò quel soffio «non abbiate paura!» - e fu come un ciclone che travolge città apparentemente salde. Tutto il ventennio di Giovanni Paolo n è all'insegna di queste tre parole talismaniche, dette per esorcizzare dèmoni. Fu vittoria dunque, ma chissà se meritava davvero di esser vinta in quel modo: in mezzo a quello stupore, a quel rapido oblio, a quella spensieratezza degli spettatori, dei protagonisti. La malinconia del Pontefice sembra nascere nell'attimo in cui il gelo totalitario si scioglie, e diventa fango dove camminare diventa addirittura più difficile, mortificante, demoralizzante. La vittoria è assicurata ma non c'è traccia di purificazione delle memorie, di pensieri profondi, salvifici, né fra gli Occidentali vincenti né fra gli sconfitti della storia. I primi hanno perso il nemicò esistenziale, e ruminano interminabilmente su questa perdita che ha spento ogni tensione civilizzatrice, ogni passio ne per la giustizia sociale. I secondi si convertono presto a nuove reli gioni pagane: religione del nazional-socialismo etnico, come nella Serbia di Milosevic o nei nazional comunisti russi. Religione di un capitalismo banditesco e completa mente sregolato, alla quale si con vertono le nomenclature postcomuniste in ex Urss sotto lo sguardo passivo, stupidamente compiaciuto, fideisticamente ottimista, delle autorità occidentali che erogano aiuti: Fondo Monetario, amministrazione Usa, Stati dell'Unione eu ropea. E' a quel punto che il Pontefice decide di concentrare le energie sulla memoria del secolo che sta per concludersi senza insegnare alcunché: memorie sepolte, trascurate, che lui promette di risveglia re, purificare. Il suo lavorio è osti nato, ossessivo, spesso osteggiato nel cuore stesso del Vaticano. Buona parte della Curia resiste, quando il Pontefice fa notare che la Chiesa per prima deve purificarsi, ed elen ca i mea culpa che intende pronunciare nel crepuscolo del millennio. Mea culpa sulle crociate, su Galileo, sull'Inquisizione, sulle guerre di religione, sulla notte di San Bartolomeo, e su molti altri peccati, elencati nell'indispensabile libro di Luigi Accattoli (Quando il Papa chiede perdono, Mondadori '97). E infine U mea culpa più sofferto: la corresponsabilità cristiana nello sterminio nazista degli ebrei, la maniera in cui il cristianesimo con le sue antiche tradizioni antigiudaiche «ha contribuito ad assopire le coscienze europee», ha «addormentato la capacità di resistenza spirituale che l'umanità era in diritto di aspettarsi dai discepoli di Cristo», si è mostrato incapace di scongiurare in tempo l'irruzione in Europa di un antisemitismo nuovo, pagano, non solo antiebraico ma nella sua essenza anche anticristiano. La porta che apre al Duemila è per il Papa veramente soglia simbolica, dove si impone per la Chiesa un epocale esame di coscienza. Di qui gli accenti veterotestamentari di tante omelie, con gli appelli al Decalogo e ai doveri dell'uomo che devono affiancare i diritti. Di qui la passione quasi protestante per l'autoesame, per lo scavare nelle coscienze. Alcune volte il mea culpa è pronunciato a caldo, quasi di corsa: come in occasione del genocidio dei tutsi in Ruanda nella primavera-estate '94. Il Pontefice è il primo occidentale a parlare di genocidio, il 15 maggio '94, e a denunciare «le responsabilità» di numerosi sacerdoti cattolici ruandesi. Nonostante i mea culpa e gli esami, tuttavia, il Pontefice non riesce in questi vent'anni a distendere durevolmente le relazioni con le comunità ebraiche. Non riesce neppure a intraprendere l'azione che più gli sta a cuore: il pellegrinaggio a Gerusalemme. Restano incomprensioni e cecità da una parte, come dall'altra. Incomprensione del Papa, quando caldeggia la costruzione di un convento carmelitano dentro le mura di Auschwitz, per poi fare marcia indietro. 0 quando difende burocraticamente Pio XII, mettendo in rilievo la sua resistenza anticomunista ma non la sua passività nei confronti del nazismo. 0 quando beatifica il cardinale croato Stepinac perseguitato dai comunisti, rievoca le dichiarazioni di quest'ultimo contro il nazismo ustasha l'in dal '41, e però tace sulle complicità fra clero cattolico e fascismo croato. Ma incomprensioni e cecità anche da parte ebraica: quando il Papa riceve Arafat, o quando beatifica Edith Stein, l'ebrea convertita al cattolicesimo gasata a Auschwitz. Contro la decisione papale insorgono molti ebrei, per i quali il cattolicesimo di Edith Stein non fu che un incidente di percorso. La suora carmelitana morì in quanto ebrea e non cessò mai di essere ebrea: osserva Elie Wiesel, adottando paradossalmente gli stessi criteri raz¬ ziali adoperati dai nazisti. E il campo di Auschwitz non appartiene ad altri che agli ebrei - così suona la critica al Papa - come se in quei torni non fossero periti anche altri popoli, religioni, razze. Illuminata e intelligente ò stata la soluzione escogitata dal Pontefice: da ora in poi, l'anniversario di Edith Stein sarà anche un giorno di commemorazione della Shoah, per l'insieme dei cristiani. Ma resta la spina ebraica, nel fianco del Pontefice polacco: spina per la Chiesa che rappresenta, e spina sua personale. Perché Wojtyla era già adulto e capace eh giudizio, quando alle porte della sua Cracovia i quartieri ebraici erano evacuati brutalmente, e Auschwitz bruciava. Perché il giovane studioso di teologia non scelse la resistenza e il martirio, come il cristiano Kolbe che il Pontefice si affretterà a beatificare e a indicare come esempio di vera santità. Difficile è dunque la soglia del terzo Millennio, per questo Papa intenso, profondo, a volte come soverchiato da ineffabili tormenti. In un'Europa decristianizzata la sua figura si erge solitaria, terribilmente dogmatica c impaziente e impotente su importanti questioni di costume: sempre più estranea comunque, al passivo e permissivo Spirito dei Tempi. Lui non è passivo. E' anzi abitato da ansie filosofiche, da sollecitudini che nel corso del ventennio si son l'atte sempre più impetuose. Spesso i'a pensare a uno Straniero, scaraventato per vivere e durare su mia terra che non sente sua. Il Papa ha fretta di dire e rammemorare le cose che contano nel poco tempo che gli resta, e che resta anche alla civiltà d'Occidente. Ha fretta di riscrivere la storia del cristianesimo, di preparare le condizioni di un ricominciamento, di una Riconquista. Negli ultimi anni il Pontefice somiglia sempre più a Paolo, nel messaggio come nei gesti imperiosi, esigenti. Possiede l'umile pazienza edificatrice di Pietro ma sente al tempo stesso - come lo sentiva Paolo - che questi sono gli Ultimi Tempi. Che al più presto occorre fare ammenda e rinascere a nuova vita, se si vuol tenere lontana la disperazione totale che incombe. Giovanni Paolo II è uomo memorabile, di questa line Novecento: è il più tenacemente inquieto, il più assetato di verità fra i responsabili d'Occidente. E' figura che crea imbarazzo, nelle religioni monoteiste. E' un Papa che vive come se la Rivelazione finale, l'Apocalisse cristiana, fosse già cominciata: come Giovanni, anche lui è «afferrato dallo spirito», sente di dover narrare quel che intuisce, che vede venire: non la storia del mondo che finisce, ma certamente la fine di un mondo cui l'Europa era abituata. Il suo stesso predicare e girare il mondo per chiamare a raccolta è anelito messianico di nuova Gerusalemme, dove «non son più visibili i templi perche il Signore Dio, il corpo di Cristo e l'Agnello sono divenuti essi stessi templi» nuovi dell'era escatologica (Apocalisse 21,22). Nelle grandi adunate, nei concerti-preghiere che mette in scena, il Papa offre già mi altro tempio all'umanità mutante: non più il tempio di pietra ma il suo stesso corpo di vicario di Cristo, come tempio interiore. Corpo non a caso martoriato e incurvato da sofferenze, in una sorta di imitatìo Chhsti. «Ogni giorno io muoio» sembra dire il Papa nelle sue apparizioni. Lo stesso diceva Paolo, nella sua ansia di educare e convertire presto le genti «Quotidie morior, ogni giorno vivo la mia morte». Per Giovanni Paolo li è stata centrale anche una certa idea della bellezza, unita nel suo modo di vedere a fede, verità, e bontà. Difficile dimenticare le sue prime apparizioni: il lucore delle sue vesti immacolate, il fascino esercitato dalla sua voce, dal suo cantare, dal suo gesticolare. Difficile ignorare le curatissime coreografie luminose dei suoi raduni. Questa visione salvifica delle fonne artistiche, questa «teologia della bellezza» come la chiamava il teologo Evdokimov, è parte del suo patrimonio orientale, come ricorda il carmelitano Aldino Cazzago in mi testo di notevole interesse {Cristianesimo d'Oriente e d'Occidente in Giovanni Paolo li, Jaca Book '96), e conferma la doppia appartenenza del Pontefice slavo. «Attendo che la bellezza venga a illuminare un giorno i muri sordidi della mia quotidiana esistenza», diceva Ionesco. E prima di lui Dostoevskij, più lirico: «La bellezza salverà il mondo». Forse è quel che attende anche Karol Wojtyla: questo Papa che si sente straniero nel secolo, e che più di tanti altri ha voluto forgiarlo, mtensamente ricordarlo, e purificarlo. I Barbara Spinelli «Non abbiate paura!»: grazie alla sua voce potente sono caduti muri che parevano infrangibili Ma alla vittoria non si è accompagnata la purificazione delle memorie, né tra i vincenti né tra gli sconfitti della storia Buona parte della Curia resiste quando il Pontefice elenca i mea culpa che intende pronunciare nel crepuscolo del millennio: sulle crociate, su Galileo, sull'Inquisizione e su molti altri peccati PAPA WOJTYLA