« Sto addomesticando la mia mano»

« Sto addomesticando la mia mano» l/UOMO DELLO STORICO TRAPIANTO Lione, «per anni ho girato il mondo: volevo trovare un'equipe che ce la facesse» « Sto addomesticando la mia mano» «La guardo ogni mattina, quando mi sveglio» ULIONE NO sguardo vivo sotto sopracciglia nere e spesse; un sorriso disteso; e poi una risata forte, inattesa. Quest'uomo è in forma o finge molto bene. Con un cenno del capo suggerisce di sedersi, mentre noi ci scusiamo, nascosti da una mascherina sterile, di non potergli sorridere. «Niente di male, posso farlo io». La mano è là, posata su un cuscino, le dita che escono dal bendaggio. Cinque dita giallastre, leggermente piegate, perfettamente vascolarizzate. E tiepide, dunque vive. Inerti e insensibili, ma vive. La mano è là, al suo fianco, fasciata e covata con lo sguardo, come un neonato, come una vita autonoma da proteggere. La mano sognata, la mano innestata. «La guardo tutte le mattine quando mi sveglio, e ogni volta vedo un miracolo». Clint Hallam, paziente a un tempo modello e misterioso, migliora. Il trapianto della mano destra, compiuto a Lione da una équipe diretta dai professori Jean-Michel Dubernard e Earl Owen, l'ha già fatto passare alla storia, e l'idea del «pioniere» piace a quest'uomo d'affari neozelandese che vive a Perth, Australia. Dopo dieci anni, ha concretizzato il suo desiderio, un'avventura al limite del soprannaturale. «Per anni non ho avuto che un'idea fissa: il trapianto, il trapianto, il trapianto. Ero pronto ed andare in capo al mondo per trovare l'equipe chirurgica in grado di restituirmi la mano. Mi sono documentato, ho fatto migliaia di ricerche, e poi ho scritto, mandato fax, telefonato a un mucchio di medici. Quando dicevano di volermi incontrare, io, qualunque fosse il continente, salivo sul primo aereo e sbarcavo da loro: "Siete pronti? Io sono il vostro uomo! Volontario per la grande prima". Ma loro si sgonfiavano: "Forse l'anno prossimo...". E io ripartivo. Sempre attento, tenevo d'occhio tutte le notizie sull'argomento. Bisognava che fossi al posto giusto quando fosse scoccata l'ora X. Mi ero posto un obiettivo. Non c'era niente al mondo che avrebbe potuto fermarmi. Niente». Un telefonino posato sul cuscino si mette a suonare. La sua mano sinistra lo afferra. «Ciao amore mio». E' la famiglia, dall'Australia; una donna, dei bambini (ne ha avuti otto: quattro dal suo ultimo matrimonio e quattro da uno precedente) che vogliono le ultime novità prima di andare a dormire. «E' incredibile come mi hanno sostenuto. Abbiamo più volte discusso del trapianto, la sera a tavola. Si parlava dei rischi, dei trattamenti successivi, di questa strana attesa che, per almeno 18 mesi, mi avrebbe obbligato a rinunciare a giocare con loro e a praticare il cricket e la pallacanestro. Eravamo tutti consapevoli di ciò che l'operazione avrebbe significato». L'incidente che gli aveva fatto perdere l'avambraccio risale al 1984. I chirurghi avevano subito tentato di riattaccarglielo, ma l'arto non aveva recuperato mobilità e sensibilità. Nell'89, Clint Hallam decise di farselo amputare. L'intervento sarebbe dovuto servire - pensava - a facilitare il trapianto, che un giorno o l'altro sarebbe stato possibile. Lui non si accontentava di una protesi. Voleva «materiale» umano. Fu così che nel '96 si mise in contatto con il professor Earl Owen, direttore dell'istituto di microchirurgia d'Australia, pioniere dell'innesto di dita. «Sono senza una mano, innestatemi quella di un morto». Aveva bussato alla porta giusta. L'innesto della mano era da tempo il sogno di Owen. Nell'ottobre del '97 il chirurgo annunciò di essere pronto. Hallam prese l'aereo per Sydney. Si sottopose a tutti gli esami e moltiplicò gli esercizi per far lavorare i muscoli corrispondenti all'arto amputato. «Nella mia testa facevo suonare alle dita dei brani di pianoforte». Queste dita invisibili finirono per sviluppare i muscoli... Ora con la mano sinistra Hallam sfiora le dita della mano immobile. Una carezza. E' come se memorizzasse la consistenza, familiarizzasse. Come se dovesse addomesticarla. «Sì, la parola giusta è addomesticare». Noi diciamo «la» mano. Lui dice «la mia» mano. «E' come un vecchio amico». Hallam ha superato i problemi di identificazione di molti trapiantati? «Sono stato io un giorno a chiedere ai medici di "ritirarmi" la mano. E' come se per dieci anni l'avessero conservata al freddo in attesa di saperla attaccare, e quindi di restituirmela. Quello che mi succede oggi mi sembra naturale. Il mio animo dice: "Finalmente hanno imparato a riattaccarla. Finalmente l'hanno rimessa a posto"». E il donatore? «Non mi pongo interrogativi. Era scritto che un giorno o l'altro avrei ritrovato la mia mano. Non quella di un donatore: la mia mano». Dice il professor Owen: «Abbiamo sostituito un pezzo con un altro, come si sostituirebbe uno pneumatico di una bicicletta». Uno pneumatico... Se Hallam è assistito tutti i giorni da uno psicanalista, forse la questione è un po' più complicata. «Tu hai un liei prepararti mentalmente all'operazione. Non c'è niente da fare: il trapianto comunque ti precipita in un'altra dimensione. Nessun chirurgo, nessuno psicologo potrà mai raccontare quello che passerà dentro di te. Sapore non è come provare sulla propria pelle. Io sto imparando a vestire i panni del paziente e così scopro nuove sfide». Per esempio? L'attesa. Quattro settimane per vedere se c'è rigetto; un anno per scoprire, «come un bambino piccolo», in che modo si muovono le dita. Due anni per sapere se l'operazione ha avuto successo. E poi la dipendenza per seni- pre dai medici e da fannaci che possono avere gravi effetti collaterali. Gli sguardi di amici e familiari? «Due dei miei bambini mi hanno sempre visto con una mano sola...». Hallam preferisce parlare di «sfide» piuttosto che di «prove». «I medici devono selezionare rigorosamente i candidati a questo tipo di intervento. Non è un'avventura per tutti. Il fattore psicologico è fondamentale. Occorre che i pazienti siano informati degli obblighi ai quali si espongono per il resto della vita. A uno che fosse tentato di farsi amputare ima mano inerte per subire un trapianto chiederei: "Che cosa cerchi? Sei in buona salute? Sei equilibrato? Conduci una vita normale, handicap a parte? Sì? Allora guardati la mano!". Io ricevo appelli di persone entusiaste per le quali il trapianto è diventato una speranza enorme. Ho paura che decidano d'impulso e con superficialità; che immaginino di risolvere così tutti i loro problemi di qualità della vita o di relazione. Ma il prezzo da pagare è enorme. Io ho avuto dieci anni per valutare se ne valeva la pena. La risposta è stata "sì". Ma non credo che lo stesso valga per molti». Rimpianti? Dubbi? Hallam non riuscirà mai a spiegare perché, pur avendo «una vita felice, una famiglia meravigliosa e amici in tutto il mondo», ha affrontato tanti rischi. «La voglia di far progredire la scienza medica. E' così raro avere l'occasione di essere utili al prossimo. Ebbene, ne ho fatto uno scopo di vita. Almeno sarò riuscito in qualche cosa...». Fa sorridere. Nel momento stesso in cui indossa gli abiti del benefattore, si viene a sapere che dovrà comparire davanti a vm tribunale australiano per alcune truffe. L'incidente del 1984? Una sega elettrica, in effetti. Ma non nel cantiere di costruzione di im palazzo come pretendeva Hallam: nel carcere di Rolleston, in Nuova Zelanda, dove scontava una condanna a due anni e mezzo per frode. Hallam, lui, non nega e non commenta. Concentrato sulla sua nuova mano, dice di conoscere almeno due cose del suo futuro: o l'innesto funziona e il suo primo augurio è di «abbracciare» la sua donna e i suoi bambini; oppure fallisce, «e mi taglieranno il braccio per ricominciare l'avventura». Non c'è posto per ìa prigione. Annick Cojean Copyright «Le Monde» e per l'Italia «La Stampa» «Ai medici dissi: innestatemi quella di un morto. E nella mia testa facevo suonare alle dita i brani per musica da pianoforte» «Il donatore? Non mi pongo domande Era scritto che un giorno avrei ritrovato la mia mano» / wm L'equipe che ha trapiantato la mano. In alto, Clint Hallam

Luoghi citati: Australia, Italia, Lione, Nuova Zelanda, Perth, Sydney