La grande speranza, poi lo sconforto di Fabio Martini

La grande speranza, poi lo sconforto IL MERCOLEDÌ' «NERO» La grande speranza, poi lo sconforto //premier china la testa: avevano già deciso di affondarci PROMA RIMA, un sospiro. Poi le mani si avvicinano al viso e lo coprono: è stremato Romano Prodi e si lascia andare ad un gesto di sconforto in pieno vertice dell'Ulivo, con gli altri leader che lo sogguardano, vagamente imbarazzati. No, quella sparata de! suo amico Tonino, Prodi non se l'aspettava: «Preferite i 30 dell'Udr ai 10 dell'Italia dei Valori? Ne prendiamo atto! Prodi deve essere il leader dell'Ulivo, non il capo di un governicchio», aveva urlato a squarciagola Di Pietro nella sorpresa generale. E alzandosi a più riprese dal tavolo: «Sono contrario agli inciuci, voi siete dei calabraghe!». Otto della sera, sala degli Arazzi di palazzo Chigi: il Professore che per tre anni aveva opposto il sorriso ad ogni intoppo e che in una domenica di ottobre si era scoperto urlatore («Noooo!»), ora china la lesta. Certo, il destino del Prodi-bis non è stato segnato dalla sortita di Di Pietro, ma in quel momento Prodi ha capito che la fine era vicina. E alle 9 della sera, dopo l'ultimo «niet» dell'Udr, il Professore si è chiuso nel suo studio con gli «intimi» - Walter Veltroni, Arturo Parisi, Enrico Micheli, Ricardo Franco Levi - e lì ha deciso di gettare la spugna, una volta per tutte: «Domani vado al Quirinale e rinuncio». Un Prodi nero, nerissimo, furibondo con Cossiga: «Hanno diffuso il loro comunicato negativo, prima di leggere il nostro. Assurdo! Vuol dire che avevano deciso di affondarci, a prescindere dalla nostra posizione». Rimpianti per un incarico che rischia di appannare l'immagine del Professore? «No, dovevo accettare l'incarico - ha confidato Prodi ai suoi - perché se si dovesse andare ad elezioni, nessuno potrà mai rimproverarmi: se avessi tentato...». Per Romano Prodi, questo 14 ottobre 1998 rimarrà a lungo nella memoria come una delle giornate più aspre, forse la più amara. La prima doccia fredda è arrivata, di prima mattina, dal Quirinale, che con i suoi canali riservatissimi ha fatto sapere a Palazzo Chigi: le dichiarazioni di Prodi, uscendo dalla sala alla Vetrata, non sono piaciute al Presidente. Il primo dispiacere Prodi l'ha invece avuto leggendo i giornali: per uno come lui che ha fatto della «coerenza» e della «trasparenza» le sue stelle polari, quei commenti sullo stile «democristiano» delle trattative, lo hanno messo di pessimo umore. Ma pur tormentatissimo tra la Scilla della rinuncia e la Cariddi del bis, Prodi, come ha spiegato ai suoi, aveva accettato l'incarico «per fare un governo, non per avvicinare le elezioni anticipate». E' con questo spirito che alle 10 del mattino ha ricevuto gli scissionisti Armando Cossutta e Oliviero Diliberto per capire se era possibile varare e a quali condizioni una maggioranza «Cos-Cos», da Cossutta a Cossiga. Dopo un'ora i due comunisti escono dallo studio di Prodi spiegando, con Diliberto, che «non si possono sommare i voti nostri a quelli di Cossiga». In realtà dai comunisti Prodi aveva avuto un sostanziale via li- bera, da concretizzare in tanti modi, per esempio con un'astensione dei cossuttiani da far combaciare con un voto favorevole dei cossighiani. E' con lo spirito un po' più leggero che Prodi ha ricevuto nel suo studio la delegazione dell'Udr, guidata da Clemente Mastella e nella quale mancava però Francesco Cossiga. L'avvio è stato colloquiale, all'insegna del «c'era una volta». Clemente Mastella scherza con "Arturo Parisi, braccio destro di Prodi: <iArtu' ti ricordi quando eravamo insieme all'Azione cattolica giovanile?». E Parisi: «Certo, poi io ho lasciato nel 1968». E Guido Folloni, presidente dei senatori Udr, già direttore di Avvenire, scherza anche lui: «E infatti dopo il '68 l'Azione cattolica ha avuto un calo». Poi si entra nel vivo: per due ore Prodi «combatte» con Mastella, Buttiglione, Cardinale, Folloni e Scognamiglio. Il Professore per un po' resiste («Io sono entrato in politica non da molto tempo, ma non sono uno sprovveduto e ho un progetto politico che non posso abbandonare») e un po' gioca di sponda con Micheli che apre: «Concentriamoci sulla forma del governo, se risolvia¬ mo questo, risolviamo tutto». Ma dopo due ore il drappello Udr esce scuotendo il capo. «Non ci siamo...». 11 tentativo di Prodi sembra al capolinea, nel palazzo parte il tam-tam: ora il favorito è Nicola Mancino. Ma nell'ora della siesta, nuovo contrordine: il passaparola racconta di un Prodi che starebbe trattando con l'Udr su due ministeri di «spesa», uno dei quali da assegnare a Pellegrino Capaldo. Vero? Falso? Le voci corrono, ma le quotazioni di Prodi, sostenuto a spada tratta da Marini, risalgono. E i diessini? Tacciono tutti da 24 ore, dopo una durissima reprimenda di D'Alema a Mussi nella serata di martedì: «Non mi avete tenuto informato!». Ma prima di entrare a palazzo Chigi, D'Alema confida: «Andiamo su Prodi, per due tre mesi poi vediamo...». Poi, a due passi dal traguardo, il Picconatore ha spezzato il filo. Fabio Martini Lo sfogo con gli amici: «Dovevo accettare l'incarico perché se si dovesse andare ad elezioni nessuno potrà mai rimproverarmi di non aver tentato»