PANSA nella notte del terrore

PANSA nella notte del terrore anteprima. Tra memorie e invettiva, il nuovo romanzo del giornalista-scrittore: una storia d'amore sullo sfondo degli anni di piombo PANSA nella notte del terrore SROMA NNARUMMA, Pinelli, Calabresi, Coco, Ramelli, Alasia, Casalegno, Moro, Rossa, Alessandrini, Bachelet, Tobagi, Taliercio, Tarantelli, Conti, Ruffilli, i morti di piazza Fontana, i morti di piazza della Loggia: la lunga scia di sangue del terrorismo nero e rosso, dal 1969 al 1988, è l'ossessivo sfondo del nuovo romanzo di Giampaolo Pansa, Ti condurrò fuori dalla notte, che Sperling & Kupfer manda in libreria martedì 20 ottobre. E' il quinto romanzo, dopo Ma l'amore no ('94), Eravamo così felici ('95), I nostri giorni proibiti '96) e La bambina dalle mani sporche ('97). Si svolge soprattutto in una Sardegna selvaggia. I protagonisti sono una giovane donna, Angela Mercier, e un affermato giornalista, Bruno Viotti, almeno in parte alter ego dell'autore. Il quale ha accettato di discutere con noi contenuti e significati del suo nuovo libro. I suoi romanzi sono nati dal desiderio di raccontare pezzi di storia e realtà italiana. Che cosa ha voluto raccontare in «Ti condurrò fuori dalla notte»? «Io volevo raccontare quella guerra civile Laliana che è stato il terrorismo. Dichiarata, è vero, da una parte sola, ma che ci ha macchiati tutti. E che ha mietuto centinaia di vittime. Viviamo in mezzo a un sacco di gente per cui il terrorismo è padri ammazzati o figli in carcere. Ma volevo raccontare anche la storia di un uomo e una donna con un rapporto particolare tra padre e figlia, quello di un'agnizione. Quando l'uomo si sta invaghendo, lei gli dice: "Guarda che sei mio padre". Mi affascina l'idea che una figlia non smette mai di cercare il padre». II terrorismo che posto ha avuto nella sua vita di giornalista? «Ho vissuto dentro questa guerra. Ho scritto centinaia di articoli sul terrorismo, per La Stampa di Ronchey, il Corriere della Sera, di Ottone e la Repubblica di Scalfari. L'attentato a Casalegno è stato il primo servizio per la Repubblica. Ricordo ancora la voce rotta di Eugenio che mi telefonava a Milano per avvertirmi: "Parti subito". Presi la mia Giulia e corsi a Torino, proprio come Viotti nel romanzo». Perché in precedenza non aveva mai scritto libri sulle vicende del terrorismo? «Perché quando tutto è finito, mi sono improvvisamente guardato indietro e mi sono detto: Madonna mia, ho speso quasi vent'anni della mia vita per raccontare questa barbarie, adesso basta. Non sono più andato a dibattiti e tavole rotonde. Le faccio una confessione. Quando è scoppiata Tangentopoli, la mia reazione è stata: meno male che ho qualcos'altro da raccontare». Come mai è tornato sulla decisione? «Quando ho cominciato a scrivere romanzi, dentro la mia pancia avevo due temi che ritornavano di continuo: l'amore, perché è la cartina di tornasole per capire l'animo delle persone, e la guerra, soprattutto la guerra interna, che appartiene al Dna degli ita- liani. E mi son detto: non puoi non scrivere un romanzo su quella guerra civile che è il terrorismo». Perché il terrorismo s'intreccia con una storia di padri e figli? «Perché è un problema generazionale. Non tanto nel senso che i terroristi sono figli partoriti da noi, quanto come conflitto tra due generazioni contrapposte: l'una che è dentro questa vicenda, l'altra che vuole una vita smemorata. E' il problema di che cosa ricordare. Angela chiede a Viotti di dimenticare. Lui vorrebbe togliersi dalle spalle questo zaino, ma non ci riesce. E le dice: "La tua forza è l'ignoranza"». Quante volte, in queste pagine, Viotti rivive le scene che Pansa ha già vissuto? «Molte volte. Quando Viotti arriva alla Sapienza, dove hanno ucciso Bachelet, è la mia scena. Ero vicedirettore a Repubblica. Durante la riunione, Scalfari riceve una telefonata e lo vediamo sbiancare in volto. Poi dice: "Hanno ammazzato Bachelet". Quindi riprende l'atteggiamento professionale: "Chi di voi va all'università?". Lì per lì nessuno ha risposto. Allora mi sono alzato: "Eugenio, ci vado io". Sono arrivato con Pertini e gli ho detto: "Presidente, faccia entrare anche me". Così l'ho visto singhiozzare di rabbia. Ero annichilito». Anche Pansa ha avuto paura come Viotti? «All'inizio no. Ho cominciato ad avere paura quando hanno ammazzato Walter Tobagi, il giornalista del Corriere. Non a caso è stato allora che a Repubblica si sono prese misure di sicurezza. E' venuto un signore che sembrava un banchiere. C'eravamo Scalfari, Gianni Rocca e io. Disse che dovevamo randomizzarci, per significare che dovevamo vivere a caso. Voleva che gli raccontassimo le nostre vite. E quando Scalfari l'ha fatto, mostrando vite da impiegati, si è alzato e ha dichiarato: "Sapete, signori, che vi dico? Che siete indifendibili"». Ma Bruno Viotti è Giampaolo Pansa? «Ho prestato a Viotti molti dei miei umori. Però lui è più giovane d'una decina d'anni. E poi è uno sempre angosciato, un tipo che non mi piacerebbe essere. In realtà io vorrei essere come Angela Mercier, perché ha l'incoscienza delle giovani vite. Lei bada al sodo. E' lei che lo cerca. E' lei che lo ritrova. E gli dice: "Voglio tirarti fuori da questa notte orrenda"». Viotti è un uomo in fuga. Non sopporta più il mondo dei giornali. Lei ha avuto la tentazione di scappare? «Sì, io ce l'ho sempre. Se fossi un ricco signore e non avessi legami, anche importanti, l'idea di scappare potrebbe catturarmi». E l'invettiva di Viotti sia contro gli intellettuali di sinistra benevoli col terrorismo sia contro quegli estremisti «che adesso predicano sui giornali di quei padroni che volevano distruggere, o dal pulpito di tutte le televisioni del capitale pubblico e privato», è in realtà uno sfogo di Giampaolo Pansa? «Sì, è uno sfogo mio. Perché vedo che non riesco a forare il muro del narcisismo, che origina cinismo e diventa trasformismo. Se sei convinto di essere un superuomo, sei autorizzato dal tuo supergo a fare qualsiasi cosa. In¬ fatti Viotti parla di "biografie da capogiro". E se qualcuno vuole riconoscersi, si riconosca pure». Ha già in mente un nuovo libro? «Non solo in niente. Lo sto già costruendo. Raccontare un'infanzia nell'Italia del dopoguerra, con dentro una trama che non posso dire. Ma le dico il titolo: Il bambino che guardava le don ne». Al quinto romanzo lei si sente ormai più scrittore che giornalista? «No. Sono un giornalista. La maggior parte della mia giornata se ne va per occuparmi del giornale che mi paga per questo. Nelle ore libere mi dedico ai romanzi. Però ho sempre un quaderno con me e se mi viene un'idea da romanzo, comincio a scriverla». Alberto Papuzzi «Alla fine di tutto mi dissi: ora basta con questa barbarie. Perciò non avevo mai scritto libri sul terrorismo» «Quando alla Sapienza fu ucciso Bachelet arrivai all'università con Pertini: lo vidi singhiozzare di rabbia» Giampaolo Pansa. In alto Carlo Casalegno, assassinato dai brigatisti nel 77, in basso un'immagine emblematica degli anni di piombo « Giampaolo Pansa. In alto Carlo Casalegno, assassinato dai brigatisti nel 77, in basso un'immagine emblematica degli anni di piombo

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