Un tabù che ancora fatica a cadere di Francesco La Licata
Un tabù che ancora fatica a cadere Ministri, prelati e gli stessi affiliati per decenni hanno evitato quel termine Un tabù che ancora fatica a cadere QROMA UELL1 che oggi sono almeno «cinquantini», per dirla con la lingua ili Andrea Camilleri, ricorderanno quanta angoscia potesse provocare - in moltissimi siciliani - un qualunque discorso che contenesse la parola malia. 1 bambini chiedevano: «Che vuol din; malioso?». La risposta degb" adulti era il dito tra la punta del naso e la bocca, ima inequivocvabile richiesta di silenzio. Poi, a bassa voce e dopo essersi sincerati di non essere ascoltati, spiccavano che di «certe cose» non bisognava chiedere. Se ciò accadeva nel chiuso di quattro mura, figurarsi la fatica quando di mafia bisognava parlare in pubblico e per necessità. Persino le relazioni annuali dei Procuratori Generali preterivano aggirare il termine, ricorrendo alle più fantasiose circonlocuzioni. Le «famiglie» erano ((bande criminali», la mafia era «consorteria di delinquenti». Il bisogno di negarne l'esistenza, o quantomeno di esorcizzare l'innegabile immanenza, è stato preminente anche; nel linguaggio della Chiesa. Bisognerà attendere Giovanni Paolo li e il discorso di Agrigento per leggere la parola malia, con relativa, chiara condanna. Né avevano fatto di meglio i ministri dell'Intorno in 50 anni di Repubblica: la «criminalità organizzata» spaventava meno della «mafia». E allora avanti a colpi di perifrasi e tecnicismi. La cultura del silenzio, d'altra parte, impone di evitare le parole dirette. Ha spiegato Tommaso Buscetta che i mafiosi, per primi, non usano quella parola maledetta. E per evitare di pronunciarla hanno fatto ricorso al termine «Cosa nostra». Gli affiliati non sono mafiosi, ma «uomini d'onore». Come poteva essere diversamente se il postulato del perfetto mafioso nega l'esistenza della mafia? Liggio, intervistato, rispondeva: «E cos'è?». Gerlando Alberti ironizzava: «Che è, una marca di cioccolatini?». Più sottile la risposta di Piddu Madonia ai cronisti che proponevano l'aimoso dilemma sull'esistenza della onorata società: «Io so che c'è l'Antimafia addirittura in Parlamento, ne deduco che dovrebbe esistere anche la mafia». Come a dire: «Ve la siete inventata voi della società civile». Chi ha pronunciato la «parolina», in Sicilia, o è statò preso per matto o ha subito conseguenze, anche gravi. Fino al 1982 non era neppure previsto il reato di associazione mafiosa. Dieci anni prima il pentito Leonardo Vitale (com'è raccontato nel libro «L'uomo di vetro» di Salvatore Parlagreco) aveva descritto nei particolari l'organizzazione, «guadagnandoci» soltanto il manicomio e poi una scarica di lupara. Il quotidiano «L'Ora» di Palermo ricevette il tritolo in tipografia per aver osato pubblicate la foto di Luciano Liggio. E mentre a Ciaculli (1963) si consumava mia strage con sette morti, il cardinal Ruffini sosteneva che la mafia era ima invenzione dei comunisti. Illustri ministri, come il democristiano Mario Sceiba, ironizzavano in Parlamento sugli allarmi che provenivano da chi in Sicilia rischiava la vita e - prendendo in prestito le teorie di Giuseppe Pitrè - liquidavano il problema affermando che «dalle nostre parti» il termine viene usato anche per una bolla donna, mafuisa, e persino per un cavallo di carattere. Una vera battaglia, dunque, si è svolta e si continua a combattere - a giudicare da quanto accade a Caccamo - attorno alla parola mafia. La stessa origine oscura del termine è oggetto di discussioni. C'è chi la fa risalire agli arabi, chi alla rivolta dei Vespri Siciliani. Suggestivo l'etimo arabo, che descrive qualcosa che c'è e non c'è. Esiste da secoli, se si dà credito a una relazione di polizia di metà Ottocento che ne denmicia l'esistenza «da più di cent'anni». I siciliani la less^jLPor la prima volta in un'opera teatrale del 1863: «1 màfma aTTà* Vicaria di Palermu». Ma quello era teatro. Nelle «cose serie», di mafia si parlerà solo dopo la morte di Dalla Chiesa. Francesco La Licata
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