POLLINI di Sandro Cappelletto

POLLINI Il grande pianista tra confessione e provocazione: oggi al Salone della Musica la sua prima video-intervista POLLINI // dovere del coraggio L^Tl MILANO 7 INIZIO bambino, i timidissimi debutti a nove anni, i primi concerti a quindici, la vittoria, diciottenne, al Concorso Chopin di Varsavia nel 1960. La decisione, rara e saggia, di esigere da se stesso, subito dopo, un periodo di silenzio per sottrarsi alle sirene del successo immediato. La vastità del repertorio, la tenacia nel difendere le proprie scelte. Maurizio Pollini, come ha imparato a governare il suo mestiere? «Ogni artista è diverso, il mio equilibrio ho cercato di trovarlo limitando il numero dei concerti, per avere più tempo di riflessione, di ricerca. E anche perché, non lo nascondo, desidererei che ogni concerto fosse qualcosa da poter ricordare con piacere, per chi vi assiste». Una carriera lunga quarant'anni. Prevalgono i momenti di svolta o di continuità? «La continuità c'è, le svolte non vengono improvvise. Una, sicuramente, è stata impressa dallo studio della musica contemporanea, che per me ha avuto luogo negli Anni Settanta. Ho cominciato a proporla nei miei programmi, non l'ho più abbandonata. Tutte le scoperte hanno bisogno di tempo per assumere importanza e, in particolare, questa è stata preceduta dall'incontro con l'insieme della scuola viennese e l'opera di Arnold Schoenberg». Scelte del tutto personali o stimolate anche da un clima culturale, civile che si viveva a Milano negli Anni Sessanta? «Prima ancora: ricordo, negli Anni Cinquanta, la presenza di Dimitri Mitropoulos alla Scala per la prima milanese del Wozzeck di Alban Berg. E senz'altro si può ricordare il periodo in cui Paolo Grassi fu sovrintendente alla Scala e riuscì a portare a Milano presenze ricche e significative. Il rapporto tra artisti e organizzatori era intenso, reciprocamente curioso e credo molto fertile. Mi pare che negli anni successivi si sia un po' perduto». Non si è perduto il suo sodalizio con Abbado. «Il sodalizio avviene quando si fa musica assieme. Lo conoscevo da ragazzo, anche se ci frequentava mo poco. Ci siamo ritrovati per suonare e abbiamo avuto molti momenti di legame musicale, realizzando un'intesa che non si può prevedere prima e che ancora non si è esaurita. Un aspetto del fare musica di Abbado che apprezzo particolarmente è la sua volontà di potenziare le orchestre dei giovani, ha sempre avuto un grande piacere a lavorare con loro». Nel filmato che si proporrà oggi al Salone della Musica, ve dremo anche un momento della collaborazione tra lei, poco più che trentenne, e un maestro come Bòhm, che ave va allora ottantaquattro anni. Come avvenne quell'incontro? «Fui io a cercare di procurarlo. Avevo ascoltato alcune sue inter pretazioni mozartiane, in particolare le sinfonie. Ne ero entusiasta e osai chiedergli di suonare assieme Si realizzò un'intesa per me magnifica, e dopo quei due Concerti di Mozart abbiamo lavorato insieme per altre registrazioni, di Beetho ven e Brahms». I tempi lenti di Mozart: come si riesce ad esprimere la loro poesia senza cadere nell'ec cesso della retorica? «Suonare lentamente per realizza re l'espressione, ma allo stesso tempo mantenere la fluidità vien nese: trovare questo rapporto è dif ficile. Quando Mozart indica Adagio - e lo fa raramente - allora biso gna davvero suonare Adagio. L'A dagio non l'hanno inventato Wagner e Bruckner». La bellezza formale e la dram- maticità. Come convivono questi due aspetti? «Mozart diceva che la musica deve esprimere tutto senza offendere le orecchie. E' quasi impossibile far sentire questi elementi così profondi del suo comporre mantenendo l'assoluta bellezza formale. Qualche volta preferirei che si tirassero fuori di più, magari scalfendo un attimo questo ideale assoluto. Meglio così, piuttosto che il contrario; d'altra parte in Mozart si schiudono già degli elementi romantici». La «grazia», sempre misteriosa, e la consapevolezza. Quanto Mozart era consapevole della propria poetica? «Del tutto! Si leggono certe impossibili biografie mozartiane in cui lui viene presentato come un compositore ingenuo, inconsapevole nei riguardi della sua stessa musica. E' un atteggiamento inaccettabile, possibile solo partendo dalla più totale confusione su quello che la musica significa. Che un grande drammaturgo come Mozart non abbia consapevolezza piena! Un compositore di così straordinarie profondità e acutezza umane». Molti suoi colleghi sono meno sensibili di lei al repertorio contemporaneo. «Non riesco a capire una mancanza di interesse verso la produzione musicale che ci è più vicina. Sono convinto che in tutto il nostro secolo, dall'inizio sino a tempi recentissimi, è avvenuta la creazione di opere di altissimo valore». Il post-moderno, la comunicazione: molta musica d'oggi strizza gli occhi alle orecchie del pubblico. La sua opinione? «E' impossibile far musica oggi senza rendersi conto della grandezza di alcuni momenti del Novecento. Escludere questi grandi compositori, penso ad esempio a Stockhausen, Boulez, Nono, dalla prospettiva della musica è un cammino sbagliato, che non può dare frutti importanti. Non si può prevedere quale direzione prenderà la musica in futuro, ma i dati storici di continuità non possono essere elusi. Le mie esperienze d'ascolto della musica a cui lei si riferisce sono state del tutto deludenti». Il concerto dal vivo, l'interprete davanti al pubblico. Una formula che ha ancora un futuro o sarà vinta dal diluvio di musica riprodottta? «L'avrà sempre. Una musica che non passa attraverso le macchino, per quanto perfezionate siano, ha qualcosa di diverso. Il contatto diretto con l'esecutore genera delle emozioni diverse e, analogamente, per chi suona la presenza del pubblico offre uno stimolo creatore». Il pubblico condiziona le sue scelte? «Non si deve andare a rimorchio dei gusti del pubblico per il sempli- ce l'atto che i musicisti hanno una quantità di informazioni enormemente superiore rispetto alla media del pubblico Lo stesso accade quando lei si reca da un professionista, di cui apprezza la maggiore conoscenza nel suo campo specifico. Dunque, dovere di un musicista è fare delle scelte coraggiose e questo è a totale favore del pubblico». E' mai andato in collera con se stesso per un'esecuzione poco soddisfacente? «Accade costantemente». Si sente appagato? «Sono convinto che ogni grande creazione musicale è superiore alle esecuzioni che ne vengono date. La distanza che separa l'interprete dall'opera è un territorio immenso che si potrebbe colmare solo se ne fossimo capaci. Si cerca, si tenta». Nel futuro si dedicherà di più all'insegnamento? «Ho sempre rifuggito dalla responsabilità diretta di seguire un giova- ne. E' un'esperienza molto impegnativa e forse al di là delle mie capacità. Ma alcuni giovani musicisti con i quali ho avuto dei contatti mi hanno molto aiutato, a sperimentare, a cercare soluzioni». Un ragazzo comincia a suonare, per passione, per hobby. Cosa deve sentire perché la musica diventi professione? «Per onestà verso i giovani converrebbe dire che se non sentono un impulso forte verso la musica, forse non conviene dedicare tante energie a un campo così difficile. Ma se la spinta c'è, bisogna tenerne conto, incoraggiarli, aiutarli». Il suo entusiasmo rimane uitatto? «Sì, devo proprio dire di sì. Sarebbe un mondo molto più squallido senza l'arte. Ne sono convinto e non solo per me, ma per ogni artista, per ogni uomo». Sandro Cappelletto «o19MnePocoerricmscsomzaotmmno«Messitepadesiinprglsifafo«POLLINI

Luoghi citati: Milano, Varsavia