REVELLI Il mio prete ribelle di Alberto Papuzzi

REVELLI Il mio prete ribelle Intervista con lo scrittore sul suo nuovo libro: tra Vangelo e eroismi quotidiani, diario di un curato partigiano REVELLI Il mio prete ribelle CUNEO DAL NOSTRO INVIATO A 79 anni Nuto Revelli, l'ex ufficiale degli alpini ed ex comandante partigiano che ha messo a nudo la realtà sociale e la pena umana dell'esperienza bellica, nella Guerra dei poveri (1962), La strada del Davai (1966) e L'ultimo fronte ( 1971 ), e che ha battuto per anni le sue valli per raccontare la sconfitta dell'esistenza contadina ne IZ mondo dei vinti (1977) e L'anello forte (1985), ha scritto il suo libro forse più bello: Hprete giusto, una storia disperata, un'evocazione emozionante, di cui Einaudi annuncia l'uscita nella collana degli «Struzzi» alla metà del mese. Come talvolta accade proprio per i libri mighori, è un testo breve, di pagine scarne, scritte in una lingua asciutta e disadorna, che rende essenziale ogni cosa e sembra riflettere un senso di spogliazione. Per una certa atmosfera e per il ritmo diaristico, ricorda il primo libro di Revelli: il taccuino della campagna di Russia, pubblicato con u titolo Mai tardi all'indomani della guerra. Del nuovo libro, abbiamo discusso, dopo aver letto le bozze, con lo scrittore, un pomeriggio, nel suo piccolo studio colmo di libri, carte, cassette registrate, accatastati ovunque, fin sul divano. «Ecco qua, le faccio vedere», dice Revelli. Tira fuori una cartellina verde che contiene oltre trecento fogli. Sono le trascrizioni dei colloqui col protagonista della nuova opera, in una nitida calligrafia. «So lavorare solo in questo modo. Prima a mano sulle registrazioni; quindi alla macchina da scrivere. Ho due "Lettera 22". Tutti i miei libri sono nati così. Sono un po' matto, ma è il modo che mi piace». «Era il 1982. Avevo in mente una ricerca sul clero della campa gna povera, quando don Raimon do Viale, prete ribelle di Borgo San Dalmazzo, mi mandò a chiamare, da una casa di riposo. Con l'aiuto dell'amico Mario Cestella in cin que incontri raccolsi tutta la sua storia. Mi sentivo molto coinvolto, perciò la tenni ferma. Forse la molla che m'ha spinto a riprenderla è l'aver rinunciato all'indagine sul clero». 11 lettore di Revelli ha già incontrato don Viale in una commossa pagina de II disperso di Marburg, il precedente libro, pubblicato nel 1994. E' il sacerdote che accorre ad assistere, come può, quattordici giovani resistenti che i tedeschi hanno deciso di fucilare per rappresaglia. Riesce a salvarne uno solo ed è testimone del feroce massacro degli altri. Di don Viale Il prete giusto percorre l'esistenza, dalle origini contadine, in un mondo avvolto in una «semplicità biblica», alla vita in seminario, con la fame e il freddo, dalle botte dei fascisti, «tanto da ammazzarmi», alla guerra partigiana, fino all'ora d'un amaro epilogo. Sebbene inserito nel mosaico dei temi cari a Revelli, il libro segna un distacco rispetto alla produzione precedente: per la prima volta l'autore tace su se stesso, è esclusivamente un narratore, e per la prima volta propone una vicenda totalmente individuale, che tuttavia possiede la forza di sintetizzare momenti salienti d'una memoria collettiva. «Una cosa è certa: provavo ammirazione per questo prete che parla sempre di paura mentre ha un grande coraggio - dice Revelli -. Penso a quando va nella caserma per dare cristiano conforto ai quattordici condannati a morte. Se qualcuno lo riconosceva, sarebbe stata la sua fine. Penso a quando accetta l'invito d'un ufficiale della Muti a occuparsi d'un condannato: bisogna sapere cos'era la Muti, che banda di assassini, per capire queste scelte sofferte». L'emozione scaturisce soprattutto dal contrasto fra la nudità del racconto e la complessità che intreccia. Sul filo della memoria d'un uomo che vuole fare i conti con la propria storia, vengono a galla problemi come il senso finale della vocazione sacerdotale, i dubbi e le scelte di fronte alla Resistenza, ciò che s'intende per libertà, il rapporto tra fede e storia. Il tema dominante sembra quello sulla disperazione del prete, ini mediabilmente diviso tra fedeltà alla sua missione e debolezza della sua umanità. Egli è solo, con le sue paure. In questa chiave, la voce rotta di don Viale riecheggia talvolta le angosce del Diario d'un curato di campagna di Bernanos. Anche lo scrittore dei soldati e dei contadini tocca il dramma, tutto religioso, di non riuscire a essere ciò che il Vangelo esige da noi. Come quando don Viale, dopo la Liberazione, si sente incapace d'assistere una collaborazionista, condannata a morte: «Io non riuscivo a parlare, non potevo parlare». «Volevo capire questo mondo cattolico che in fondo ha radici così profonde nella mia società spiega Revelli -. Più gli altri sono diversi, più mi interessano, purché siano meritevoli, abbiano qualcosa da insegnarmi. Durante la Resistenza, preti ne ho conosciuti tanti, la maggioranza erano mediatori, ma ce ne sono stati che si sono impegnati: uomini che ho ammirato, come don Denina, il parroco di Castelmagno, per me quasi un fratello maggiore». Il grande tema della Resistenza è rievocato attraverso la normalità dell'eroismo quotidiano. Il piccolo prete di campagna si prodigava non soltanto nel dare una mano ai partigiani delle sue valli ma anche nel soccorso alle famiglie ebree, sorretto apertamente in quest'opera dal cardinale Fossati, vescovo di Torino. Per i suoi meriti venne nominato «Giusto d'Israele». Attraverso un caso individuale, il racconto riesce a sfiorare i nodi fondamentali della vicenda resistenziale: la zona grigia, la questione del revisionismo, l'at- teggiamento dei cattolici, gli ideali traditi. Nel dopoguerra questa dimensione drammatica della vita è risucchiata nella banalità della politica. Il prete che in seminario aveva fondato un club dei ribelli e che per le sue prediche era stato picchiato dai fascisti e inviato al confino, si scontra coi comunisti («Il comunismo è una dittatura, una dittatura militaresca, e dicevo sempre la mia») ma anche con la gerarchia, fino a trovarsi privato della parrocchia e alla «pugnalata alla schiena» della sospensione a divinis. La sua vita comincia a finire quel giorno. Dice a Revelli, con le lacrime agli occhi: «Io non ero un funzionario, ero un padre». «In parte ò un vinto, anche lui riflette lo scrittore -. Però aveva l'ancoraggio della fede, a tenerlo in piedi. Per me ha giocato un ruolo determinante il fatto che fosse vittima d'una persecuzione insensata. Questa ingiustizia nei confronti d'un giusto. Penso che questo sia anche un libro sulla pietà». Revelli ci mostra la prova di copertina, dove campeggia un quadro del 1942, Le vie del Signore, di Giuseppe Cavalli. Quattro quinti sono occupati da un cielo nuvoloso e sotto si vedo, su una strada bianca, un prete in tonaca, col largo cappello, macchia nera, piccola e fragile sotto i ventosi presagi di tempesta. Straordinaria coincidenza, questo quadro, con una vicenda che da un remoto borgo cuneese lievita nell'orizzonte d'una epopea storica. Don Raimondo Viale ò morto nel 1984. Come tutti i giusti era anche scomodo. Adesso a Borgo San Dalmazzo gli hanno intitolato una piazza. Non gli piacevano i compromessi: «A me piacciono i bastian cuntrari», dice nel libro, affidando la sua morale a un modo di dire valligiano. La sua vita semplice intreccia, nella narrazione di Revelli, i fenomeni collettivi e le battaglie individuali che hanno fatto la nostra epoca. Perciò ha un respiro europeo. Alberto Papuzzi «Provavo ammirazione per un sacerdote che parla sempre di paura ma ha grande coraggio» Nell'immagine grande, Nuto Revelli. A sinistra George Bernanos. Qui sopra il cardinale Fossati

Luoghi citati: Borgo San Dalmazzo, Castelmagno, Israele, Russia, Torino