Il «suicidio» annunciato dell'Ulivo alla roulette russa di Montecitorio

Il «suicidio» annunciato dell'Ulivo alla roulette russa di Montecitorio Pggi cominciano le consultazioni di Scalfaro, dovrebbero concludersi martedì Il «suicidio» annunciato dell'Ulivo alla roulette russa di Montecitorio LO ricorderemo quel nove ottobre del novantotto, perché non potremo mai dimenticare le labbra tremanti di Romano Prodi che affrontò la giornata politicamente mortale giocandola alla roulette russa di un solo voto. Non sapeva se fosse a salve o a palla ed era a palla. E quando capì, era tardi: non poteva far altro che cadere con decoro, l'espressione amara della vittima sacrificale, abbattuta con il colpo di un solo voto. Un.voto con diecipadri.e dieci* Storie1 diverse, dieci novelle possibili di gente che ha cambiato idea o strada, come l'onorevole Liotta, deputato di Dini, o come la Valpiana di Rifondazione che si è chiusa a piangere per ore prima di spargere anche lei il sangue del governo. E poi gli altri, gli assenti, quelli che si sono neutralizzati a vicenda: ognuno di loro potrà dire in futuro di aver determinato la sorte di Prodi incerto, eccessivo nei fingersi disteso. E' stata una giornata torbida, dalla folla irrespirabile e inquietante, con il Transatlantico come il grand hotel: maggioranze che vanno, maggioranze che vengono. Ho aspettato davanti alla porta d'uscita e il primo a venir fuori è Bertinotti, scuro in voi to. Appare stravolto dall'esito delle sue azioni. Pallido, si guarda le mani lorde del sangue del primo governo di sinistra, e mormora il suo delirio lucido «Per forza, con una finanziaria moderata ci vuole una maggioranza moderata, se si chiede alla sinistra di approvarla, si va in crisi, o si cambia finanziaria o si cambia maggioranza». Vorrebbe un Prodi bis, sembra esterrefatto e sopraffatto dal gelo con cui Prodi non gli ha concesso nulla. Esce D'Alema e dice che le elezioni sono possibili, veramente, davvero, molto possibili. Sei metri più in là Achille Occhetto è sferzante: secondo lui D'Alema recita sapendo che Scalfaro non scioglierà mai questo Parlamento e osserva che agitare il fantasma elettorale non costa nulfa, ma serve a mascherare i moventi. Akel non ha dubbi, secondo lui l'assassino è D'Alema che ha mandato messer Bertinotto ad affondare la lama nel villoso petto del prode Romano per ereditarne il regno. In un'altra quinta dello stesso teatro Armando Cossutta ricama sarcasmi su questo nove ottobre che certamente sarà ricordato come un «giorno Fausto per le destre». E ricorda come diabolico evento i festeggiamenti di Fini, Berlusconi, Casini e degli altri che sui banchi vociavano e si sbracciavano. Cossutta è convinto che se si votasse oggi la destra vincerebbe perché esiste una maggioranza di destra nel Paese e lui non gradisce che si rischi di andare al voto. Ma anche lui sa, come tutti, che il Presidente della Repubblica vuol troppo bene a questo Parlamento per rimandarlo a casa. Quel che merita di esser ricordato della giornata è il tono dell'emozione. Una emozione che non avevamo mai incontrato in trentacinque anni di vita parlamentare. Ieri la folla di politici e giornalisti era al suo massimo storico per numero: le voci, i brusii, le risate e le angosce gonfiavano l'aria e la facevano vibrare di umori instabili, di cinismi, depressioni ed esaltazioni: un'aria diafana, un'aria maciullata dai grilli elettronici dei telefonini, un'aria da fine corsa e da ultimo giorno, farsesca e tragica. Troppo di tutto. Saverio Vertone, senatore e filosofo piemontese già comunista, poi entrato ed uscito da Forza Italia, teme l'irrompere dell'irrazionale, vede gonfiarsi i venti di tempesta della sinistra emozionale e umorale, teme le urla e tutto ciò che nella vita politica italiana è smisurato. Lo scenario accompagna le sue fredde paure con uno spartito di immagini e rumori. D'Alema, anche lui, appare oggi fosco. Ma D'Alema è un buon calcolatore, uno che ama i solitari, un realista non privo di umorismo e che ha già studiato le varianti della partita, il gambetto, l'arrocco, lo scacco di scoperta. Viceversa livido, le guance abbandonate alla forza di gravità, Walter Veltroni tiene botta, ma si è scolorito: se Prodi affonda, affondano insieme: addio Ulivo, anche se sulla piazza sventola solitaria una bandiera da consorzio agrario. E addio anche alla innocua fantasia dell'Ulivo universale, il mito archetipo dell'Ulivo Asso luto, forse Parmenide, forse Star Trek, comunque ignorato dagli ingrati leader che non ve dono al di là del naso delle loro Francie, Inghilterre e Germanie, dimenticando l'Italia. La quale però è recuperata in extremis dal settimanale «Time» che sotto il titolo «Aria Calda» alloggia sulla stessa mongolfiera, oltre a Blair, Jospin e Schroeder, anche il professor Romano Prodi, l'unico con il brevetto dell'Ulivo autentico, già depositato al Bureau des poids et mésures di Sèvres. Prodi lodava a sconfitta incassata e da solo, come gli capita talvolta, la sua propria coerenza, alla quale ha immolato tutto, specialmente la tattica e forse la strategia. E aveva ragione. Infatti non ha mollato còn'Bei*fiBoUi, e Diri sà'qua'nto gli sarebbe convenuto, ha portato la crisi in Parlamento come nessuno prima di lui aveva fatto e si è perfino venuto a suicidare in pubblico come un vero samurai bolognese. Questa forma di arrogante innocenza ieri veniva sottolineata da Sgarbi che si aggirava in coppia con Giorgianni: secondo lui Prodi è caduto perché, così come il prode Anselmo morì per non aver voluto mettere l'elmo, lui non ha voluto indossare la corazza della maggioranza preregistrata e garantita: «Non vedi che non ce l'hai la maggioranza? E se non ce l'hai che fai? Ti affidi al leghista che ha bucato, o alla deputata con le doglie?». Rocco Buttiglione, tanto cattolico papista quanto razionalista cartesiano, aveva martellato il presidente del Consiglio con un discorso a sillabe scandite, come un teorema euclideo, ma in rime baciate. Ciò avveniva quando ancora non si sapeva che all'onorevole Liotta, diniano, sarebbe venuto un attacco di coscienza certificato in aula. Ma non appena si è sa¬ puto (e benché circolasse la notizia di peso uguale e contrario secondo cui il forzista Niccolini per un errore non aveva potuto votare), la globalità delle guance dell'intero governo di sinistra-centro del dopoguerra fredda, si sono afflosciate come vecchie meringhe. L'immagine del governo un minuto prima del collasso finale, faceva staimale: il lunghissimo Fassino, che non ha mai smesso di crescere durante gli ottocento giorni del governo Prodi, si è richiuso in due con uno scatto; di Livia Turco'ai"è rappreso come un bassorilievo etrusco. Di Visco un affresco funerario. Rosy Bindi si trasformava in maga Magò mentre il Dini, di già così giallino specie di denti, si è fatto un blocco di tartaro. E tutti sembravano schizzi tratti da un quaderno di Fellini. Il governo era ormai in coma sussurrato, si azzurrava, si faceva diafano, telefono-casa, i suoi cento piccoli occhi fissavano le anomalie dei velluti, mentre la rifondarola Valpiana smetteva di frignare e votava contro il governo. Così si è svolto questo Venticinque Luglio del nove ottobre del novantotto. Forse, dopo, non ci sarà un processo di Verona. Ma certo è che sulla piazza di Montecitorio già tirava un'arietta da piazzale Loreto, con quei comunisti che cantavano bandiera rossa alla faccia di altri comunisti che gli gridavano «fascisti». E Romano Prodi, solo con la sua coerenza, saliva al Quirinale per riconsegnare al Presidente l'Italia del 21 aprile. Forse un po' logora, ma riciclabile. Paolo G lizzanti Le labbra tremanti del premier e il pallore sul volto dei ministri mentre le opposizioni esultano A sinistra cossuttiani e bertinottiani si insultano in piazza Montecitorio. Qui sopra la desolazione di Flick

Luoghi citati: Italia, Sèvres, Verona