Dilettanti allo sbaraglio
Dilettanti allo sbaraglio Dilettanti allo sbaraglio Travolti da un ottimismo temerario IROMA L crudele sofisma, di tipica circolarità demitiana, si riferisce a Prodi-Veltroni, ai loro fallimentari contabili, ai rovinosi emissari raccattavoti dell'Ulivo. E comunque certifica una specie di rivincita della Prima Repubblica, con il suo umile professionismo, sulle fatali improvvisazioni e le sciagurate superbie del Nuovo. Del resto, s'è visto bene in aula. La sconfitta parlamentare del governo è infatti da manuale: «Come perdere il governo per un voto». Ma ciò che la rende esemplare non sono tanto la matematica, i calcoli sbagliati, il singolo abbaglio sulla Valpiana, la mancata previsione del tradimento di Liotta. No, l'errore è più generale, da politici della domenica. Sta nel più temerario ottimismo, rivendicato con i media come se fosse una stra¬ tegia comunicativa; come pure sta nel non aver capito l'atmosfera, sempre più ansiogena, a base di scissioni, neonati, malati, peones all'asta. Che ci voleva di più per comprendere che quando servono cinque voti occorre prenotarne dieci? Per certi versi, il record dell'ingenuità impolitica si coglie nell'aver sottovalutato le norme inconfessabili della domanda e dell'offerta, quella legge dell'«utilità marginale», ad esempio, che rende i voti tanto più preziosi quanto più tardi si rendono disponibili sul mercato. Sì: il mercato. Si tratta, com'è ovvio, di lavoretti più sporchi che puliti. Il punto è che non soltanto sono indispensabili, ma richiedono anche un particolare know-how e molto pelo sullo stomaco. Per cui, non senza sgomento, ieri mattina si ag¬ girava per la Camera Bartolo Ciccardini, memoria storica democristiana, che ricordava come adibito a certi servizietti, ai suoi tempi, fosse Franco Evangelisti. Uno, per intendersi, che dava i biglietti della partita al leader dei disoccupati organizzati appena eletto, o che sebbene già malandato si preoccupava personalmente dell'installazione del telefono ai più infuocati colleghi lumbard. Un efficacissimo campione di malizie, al centro di ragnatele insospettabili. Ora, Prodi e Veltroni devono aver invece affidato quel compito ingrato a troppe anime belle. Gente intelligente e capace come Arturo Parisi e Enrico Micheli, galantuomini come Giorgio Bogi, principianti come Bressa, o apprendisti come Di Pietro. Insomma, giudici, politologi, capi del personale dell'Iri. Perso¬ naggi che non riesci nemmeno a immaginare nell'atto di ammaliare i lupi solitari della Lega, consolare qualche rifondatrice dubbiosa o alleviare i «tormenti» del geometra Cito. A parte che erano troppi, e senza un coordinatore, è chiaro che nessuno di loro ha seguito i consigli di Machiavelli. E cioè: non discostarsi dai metodi di governo («non preterire l'ordine») degli antenati; temporeggiare di fronte agli «.accidenti» (gli imprevisti); leggere le «istorie», e in quelle cogliere le ragioni delle vittorie degli Evangelisti, dei Gava, dei Bisaglia (con tanto di disquisizione su milizie ausiliarie, forze mercenarie, munificenza, ruolo della fortuna, necessità di esser cattivi, e così via). Andreotti docet. Prima di tutto si tira fuori dall'armadio un bel pallottoliere, poi si rinvia, si spezzetta, si bana-
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