RITORNO NEL TIBET SPARTITO TRA MAOISTI E TURISTI di Ruggero Bianchi

RITORNO NEL TIBET SPARTITO TRA MAOISTI E TURISTI RITORNO NEL TIBET SPARTITO TRA MAOISTI E TURISTI RITORNO AL TIBET Heinrich Harrer Mondadori pp. 196 L. 27.000 ULLA scia del successo cinematografico (peraltro inferiore alle previsioni) di Kundun e della riproposta televisiva di Sette anni in Tibet (il film tratto dal suo celebre bestseller), Mondadori pubblica finalmente Ritorno al Tibet di Heinrich Harrer, uscito in edizione originale nell'ormai lontano 1983. Austriaco a modo suo americanizzato, campione di sci alle Olimpiadi invernali del 1936 e scalatore di alto profilo (è stato il primo a vincere la parete Nord dell'Eiger e a conquistare numerose vette himalayane oltre gli ottomila), Harrer narra in questo volume la propria rivisitazione della Terra del Dalai Lama a trent'anni esatti di distanza dalla sua fuga da essa, avvenuta ai primi sentori dell'aggressione dei comunisti ci¬ nesi. Il libro, di per sé ben poco eccezionale, rimanda in maniera un po' smaccata e spesso ripetitiva a Sette anni in Tibet, citandone, a volte con scarsa e noiosa ineleganza, numerosi stralci, senza disdegnare qua e là polemiche di sapore vagamente accademico, e ricorrendo a quella tecnica che gli angloamericani chiamano del name-dropping: il rimando a nomi importanti e noti che dovrebbero farsi garanti della rilevanza, esistenziale o scientifica che sia, degli avvenimenti raccontati. E non è un caso che uno dei primi nomi «buttati lì» per distinguersi da quanti negli anni più recenti hanno scoperto in se stessi una passione diretta o mediata per una delle zone più misteriose del mondo sia quello di Sven Hedin, il celebre esploratore norvegese nato nel 1865, che i nostri padri hanno a suo tempo apprezzato grazie alle pagine di Piero Trevisani, Sven Hedin nel Tibet inesplorato, pubblicato nel remotissimo 1933 dalla Paravia di Torino. Come, d'altronde, non è un caso che, da Harrer, Hedin venga ridotto al rango di geografo, cartografo ed esploratore, senza che gli sia riconosciuto il merito ben maggiore di aver per primo affrontato temi quali i fondamenti del buddhismo, i rapporti tra buddhismo e induismo, le differen¬ ze interne al buddhismo stesso. Il fatto è che l'autore si presenta in Ritorno al Tibet in primo luogo come personaggio ufficiale, che si misura con autorità locali e internazionali, tratta con ambasciatori, ministri e plenipotenziari e (forse in nome degli incredibili anni da lui trascorsi alla corte del Dalai Lama) insiste soprattutto sull'aspetto per così dire «politico» dell'invasione cinese, sui cambiamenti che essa ha determinato, sulle prospettive di recupero di un territorio massacrato dal maoi- smo e dalla «banda dei quattro» a una tradizione che è rimasta fedele alle proprie origini, a dispetto delle distruzioni e dei saccheggi. Il Tibet descritto in questo libro è un mondo al tempo stesso (e malamente) cinesizzato, comunistizzato ma anche americanizzato, dove templi e luoghi di culto rimasti in piedi sono aperti a una ristretta cerchia di studiosi e di turisti alle stesse condizioni offerte loro per visitare la Città Proibita di Pechino. Dove, come nei vecchi Paesi comunisti, si fotografa poco, sempre dietro permesso e sempre a pagamento. L'idea di fondo è che il Tibet può continuare a esistere nella propria limitata autonomia soltanto finché il Dalai Lama in esilio se ne farà garante con la propria assenza, suscitando in fedeli e in devoti un «bisogno» che forse ha smarrito la sua ragione d'essere. Cioè, detto in maniera più brutale, che questa terra non è più un «Pause» ma semplicemente un'«idea», giacché la quasi totalità dei suoi templi è stata distrutta (con poche eccezioni, quali il convento roccioso e anacoretico di Milarepa), mentre i tesori in essi contenuti sono stati rapinati dagli invasori. Ma se Harrer avesse letto con maggior attenzione la storia del subcontinente indiano e dei territori himalayani che lo delimitano a settentrione (a prescindere dalla logica squisitamente «alpinistica» dei «versanti») dovrebbe almeno sapere che, da più di duemila anni, distruzione e saccheggio sono sempre state la sorte toccata in quest'area alle comunità religiose (cfr. ad esempio A.T. Embrée & F. Wilhelm, India, Feltrinelli 1989). Lo stesso Sven Hedin avrebbe a questo proposito qualcosa da insegnargli: nella logica del maya-lila, nulla è più provvisorio ed effimero, e dunque falso, delle costruzioni umane. Il vero percorso della fede - quello cui gli ultimi seguaci del Dalai Lama caparbiamente si rifanno - è un itinerario esclusivamente interiore, che si fa beffe di ogni compromesso con la storia. Ruggero Bianchi mm Harrer racconta i, suo ritomo in Tibet, trent'anni dopo il primo viaggio RITORNO AL TIBET Heinrich Harrer Mondadori pp. 196 L. 27.000