TESTIMONIARE LA VITA DOPO AUSCHWITZ di Primo Levi

TESTIMONIARE LA VITA DOPO AUSCHWITZ TESTIMONIARE LA VITA DOPO AUSCHWITZ Agamben lungo ilfilo spinato di Primo Levi ON c'è libro di Giorgio Agamben che non contenga punti di vista originali, spiazzamenti improvvisi che aprono prospettive nuove. Dai tempi di L'uomo senza contenuto, apparso nel 1970 presso Rizzoli, libro rivelazione di un giovane studioso non ancora trentenne (è stato ristampato da poco presso Quodlibet), Agamben ha messo al centro della sua indagine le forme del pensiero occidentale. Memorabile resta Stanze, proposto da Calvino all'Einaudi, ma anche Infanzia e storia, due dei saggi più belli degli Anni Settanta. Dopo aver indagato i «fantasmi di famiglia» del pensiero occidentale, Agamben ha spostato progressivamente il centro focale dei suoi interessi verso l'ambito politico, ma sempre conservando una sua evidente originalità. Homo sacer, apparso da Einaudi nel 1995, era il primo capitolo di un'indagine del tema della sovranità esercitata dal potere sui corpi: il «paradigma biopolitico» della modernità. Il campo di concentramento e quello di sterminio, l'eliminazione fisica degli handicappati e dei malati di mente da parte dei nazisti, e le stesse pratiche biologiche della scienza contemporanea, l'eutanasia e i trapianti, sono interpretati a partire dal concetto di «nuda vita». Il libro aveva suscitato interesse sia per l'approccio (Agamben ha la prerogativa di andare alle origini del lessico concettuale che usiamo, ritrovandone sovente il significato in una sfera che si situa tra il religioso e il giuridico) che per l'esito infausto che l'autore pronostica, sulla scorta di Hannah Arendt e Michel Foucault, ai popoli europei ed extraeuropei. Agamben è convinto che le scelte politiche degli uomini siano governate dalle categorie politiche, cioè che le «forme del pensiero» (forme linguistiche, prima ancora che giuridiche o politiche) determinino le azioni degli uomini più ancora degli interessi materiali o economici. La definizione dell'idea di vita è per Agamben il problema fondamentale di questo secolo; «vita e morte - scrive in Homo sacer - non sono propriamente concetti scientifici, ma concetti politici, che, in quanto tali, acquistano un significato preciso solo attraverso una decisione». Il nuovo libro, Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone, costituisce la terza parte di quel progetto di lettura che ha definito Homo sacer, ed è un'opera che obbliga a riflessioni inattese sullo sterminio ebraico. Il protagonista indiscusso del libro è Primo Levi e, insieme a lui, la figura del «mussulmano», il sommerso del campo, colui che non ha potuto sopravvivere e che per lo scrittore torinese stesso è il vero e unico testimone del Lager. Dunque, la figura che Agamben interroga è quella del testimone, cercando di distinguere tra categorie etiche e categorie giuridiche, tra loro spesso confuse (il libro contiene un riferimento non secondario al caso Sofri, al tèma della responsabilità morale). Per Agamben l'autore di Se questo è un uomo ci ha indotto a riflettere su tutto ciò che sta non al di là, ma al di qua dei confini dell'etica, focalizzando, se così si può dire, il suo sguardo non tanto sul superuomo quanto sul sottouomo. Se i «mussulmani» sono scomparsi nei gorghi inferi del Lager, chi si assume il compito di testimoniare al posto loro - per delega, dice Levi sa di «dover testimoniare per l'impossibilità di testimoniare»; e questo è un compito assai arduo, che per Levi stesso ha comportato una grande sofférenzàTdi cui dà stoicamente prova in quello che è uno dei maggiori libri del nostro secolo, I sommersi e i salvati, opera che si presenta come l'impietoso bilancio di un fallimento personale e collettivo; la testimonianza contiene infatti anche il suo contrario, l'impossibilità di testimoniare di quelli che sono i veri testimoni. Agamben si immerge, armato di concetti giuridici e filosofici, in quella zona oscura che unisce e separa il salvato dal sommerso, là dove il salvato cerca disperatamente di dar voce a chi non ha voce; per questa ragione, la parte centrale del saggio è un'indagine, a tratti non agevole, sui limiti del linguaggio stesso, sulla possibilità di dire l'indicibile, su cosa comporta cercare di restituire la parola a Hurbinek, il muto e balbettante «figlio della morte» della Tregua. Il paradosso ultimo istituito dal Lager (e dal Gulag), scrive Agamben, è che lì «l'uomo è quello che sopravvive all'uomo». Una citazione del teologo tedesco Karl Barth spiega bene cosa intenda l'autore con questa frase; Barth nota come anche dopo il Giudizio Universale, se fosse possibile, ogni bar o dancing o circolo carnevalesco o casa editrice o gruppo di politicanti «cercherebbe di ricostruire alla meno peggio e di continuare come prima la loro attività, senza essere affatto toccati né annientati, senza essere in nulla seriamente mutati da ieri a oggi». L'interrogazione del teologo risuona drammaticamente nella testimonianza di ogni sopravvissuto, e lo scopo di Agamben sembra quello di arrivare a definire quel limite - l'ai di qua - in cui l'uomo resta uomo senza più esserlo. Per lui Au¬ schwitz è il luogo «in cui lo stato di eccezione coincide perfettamente con la regola e la situazione estrema diventa il paradigma stesso del quotidiano», in cui la distinzione tra normale e eccezionale, che nella vita comune di solito resta opaca, diventa di colpo evidente. E' difficile riassumere il movimento ellittico di questo libro, ricco di provocazioni e di ragionamenti assai stringenti; tuttavia, mi pare che la forza (e insieme la debolezza) dell'opera risieda nella sua unilateralità. Se è infatti vero che Auschwitz, come sottolinea Agamben, ci pone una domanda irrinunciabile (cosa resta in piedi della nostra civiltà?), è però altrettanto vero che là dove la vita è stata in sommo grado offesa e obliata, come un albero mutilato essa continua misteriosamente a rifiorire (questo è il senso di un libro dal pi¬ glio epico come La tregua). Il medesimo paradosso si ripresenta in tutta la sua evidenza in un brano di Se questo è un uomo, là dove lo scrittore ci presenta la figura del primo consapevole testimone del campo, il sergente Steinlauf, che per non perdere la propria dignità si ostina a lavarsi senza sapone con l'acqua putrida del lavatoio del Lager. Di fronte alla morale eroica di Steinlauf, alla sua filosofia dura e pura, Levi si pone alcuni interrogativi che tornano a risuonare nelle sue opere successive, e che sono ancora i nostri: «Di fronte a questo complicato mondo infero, le mie idee sono confuse; sarà proprio necessario elaborare un sistema e praticarlo? 0 non sarà più salutare prendere coscienza di non averne nessuno?». Marco Belpoliti Il paradosso ultimo del Lager (e del Gulag): lì «l'uomo è quello che sopravvive aWuomo» «I sommersi e i salvati rimarrà nel Novecento come impietoso bilancio di un fallimento personale e collettivo gcma Primo Levi (sopra) è al centro del saggio di Agamben sulla memoria dei lager QUEL CHE RESTA DE AUSCHWITZ L'archivio e il testimone Giorgio Agamben Bollati Boringhierì pp. 165. L. 24.000.