VERSO MONTECRISTO A TUTTO FEUILLETON di Umberto Eco

VERSO MONTECRISTO A TUTTO FEUILLETON VERSO MONTECRISTO A TUTTO FEUILLETON Ritorna il «Conte» nobilitato da Dumas ONTECRISTO è uno dei romanzi più appassionanti che mai siano stati scritti», doveva ammettere Umberto Eco in un saggio del 1985, ora ripreso nell'edizione dei SuperBur Classici a cura di Emilio Franceschini usciti in concomitanza con il nuovo feuilleton televisivo. E' senz'altro questa la ragione per cui ogni volta si torna a essere catturati, che lo si rilegga in italiano o in francese, che Edmond Dantès abbia la faccia di Andrea Giordana o di Gerard Depardieu. Perché tutto sommato poco importa, anzi pochissimo, il come si presenta. Eco in quel saggio si trovava costretto ad ammettere le qualità del romanzo, malgrado l'innegabile sciatteria della scrittura, le lungaggini, le distrazioni. Quello che conta, in Montecristo come negli altri romanzi di Dumas, è l'architettura globale della narrazione, la capacità di trascinare, continuare a far girare le pagine, che vanno per mille, nonostante la sintassi spesso zoppicante, l'aggettivazione monotona e rititi l tf t i p pppetitiva o le metafore campate in aria. Anzi è forte il sospetto che buona parte del piacere che si prova quando ci si sistema comodamente in poltrona per leggere o guardare Dumas nasca anche da quelle manchevolezze, che con tanta disinvoltura sorreggono colossi narrativi così imponenti. «Mèlo e Kitsch, per virtù di sregolatezza, rasentano il sublime, mentre la sregolatezza si ribalta in genio» scriveva Eco nel suo «Elogio del Montecristo». Aveva sui quarantanni Dumas quando iniziò a scrivere il romanzo. Aveva firmato un contratto per «otto volumi di impressioni di viaggio attraverso Parigi», ma l'editore - visto il successo dei Misteri di Sue - gli aveva specificato che non doveva trattarsi in nessun modo della «passeggiata storica e archeologica» cui Dumas aveva pensato per guadagnare senza troppa fatica un po' di soldi, essendo preso con la mente dai Tre moschettieri. L'editore voleva proprio un romanzo. Dumas si mise allora a cercare «une espèce d'intrigue», uno spunto di trama, cui far portare le impressioni di viaggio parigine. Quello spunto lo trovò nel racconto di un avvocato, archivista alla Prefettura di Polizia, tal Peuchet, accanito spulciatore di dossier e verbali, che amava lasciar traccia godibile per i posteri dei fatti più inverosimili eppure veri del passato. Tante storie sarebbero svanite nel nulla senza di lui, bruciate nell'incendio degli archivi della Prefettura durante la Comune. Il racconto che era piaciuto a Dumas s'intitolava Le Diamant e la Vengeance. Succinto, era fatto di due blocchi: l'innocenza tradita, e la vendetta. In un primo tempo, Dumas aveva privilegiato il secondo blocco, e aveva organizzato il romanzo sulla fase della vendetta, recuperando del passato di Dantès - presentato già in età matura - solo lo stretto necessario per capire il presente. Dall'Italia a Parigi, «tutte le strade portano a Parigi», era l'occasione per sfruttare le impressioni di viaggio del progetto primario. Fu allora che Maquet disse la sua. Da «tecnico» del feuilleton, il socio di Dumas gli fece notare come sarebbe stato funzionale il contrasto latente tra la vita precedente e senza macchia di colui che era poi diventato un vendicatore e come d'altra parte era sconveniente un lungo racconto retrospettivo alla prima persona. «Tutta la sera, la notte e il mattino successivo pensai alla sua osservazione» scrisse Dumas. «Quando Maquet tornò l'indomani, trovò l'opera divisa in tre parti ben distinte: Marsiglia, Roma, Parigi. La sera stessa, facemmo insieme lo schema dei primi cinque volumi». Uno per l'esposizione, tre per la prigionia, due per l'evasione e la ricompensa della famiglia Morel. Il resto, le vendette, «era all'incirca già sbrogliato». Il protagonista di Peuchet, mediocre personaggio che aveva vissuto mediocremente in un oscuro sobborgo di Parigi, divenne così marinaio sul mare soleggiato di Marsiglia. La fanciulla cui era promesso era ricca ma di lei non si sapeva nulla. Divenne povera ma radiosa. Per l'ammirazione che Dumas provava nei confronti della figura di Napoleone, Dantès venne arrestato per la sua dedizione indiretta alla causa napoleonica, e non per il sospetto in sé degradante di essere un agente dello straniero. L'epoca dell'azione se ne trovò ritardata. La prigionia cominciava, con otto giorni di scarto appena, dove finiva nel racconto di Peuchet. Tutto il resto venne di conseguenza. In base al processo oliatissimo dell'amplificazione, determinato dalla necessità di fare del protagonista un superuomo, che ha patito quindi sofferenze sovrumane, la cui detenzione perciò raddoppia, da sette a quattordici anni. E sarebbe aumentata ancora, se non ci fosse stata in prossimità la Rivoluzione del 1830 e l'automatica apertura delle porte del castello d'If ch'essa avrebbe determinato. Se la vendetta doveva essere immensa, anche la fortuna doveva essere inaudita. Rispetto alla realtà, venne decuplicata. E via di seguito. Ma questo è esattamente il procedimento in base al quale dalla storia si fonna il mito e nasce l'epopea. A suo modo il Conte di Montecristo è un'epopea, dotata di grandezza assoluta nonostante le relative défaillances. Ne conveniva Eco, che attribuisce a Dumas sregolatezza e genio. Le singole parti sono macchiate di ordinaria faciloneria, tutte insieme creano lo straordinario. L'insieme traballa spesso, com'è proprio di tutte le narrazioni che procedono a puntate, o che vengono fatte a voce di fronte a un pubblico di uditori la cui attenzione va spesso ricatturata e di continuo bisogna ricordare quello che è appena successo, ma ciò nonostante regge benissimo. Quanto ai singoli elementi, la cui varietà e totalità è volutamente tale da far girare la testa, benché Dumas non potesse materialmente controllarli tutti, non bisogna credere che li avrebbe facilmente sostituiti con altri. L'insieme regge perché è costruito così e non leggermente diverso. A un lettore che si era affezionato al Montecristo e non poteva sopportare che le puntate fossero finite, e gli aveva dunque scritto sperando in una risposta, di cui aveva sentito peraltro parlare, Dumas rispose: «Esiste qualcuno al mondo che, trovando facile fare ciò che a me pareva impossibile, ha scritto con il mio nome il seguito del Montecristo. Il seguito aveva per titolo La mano del defunto. Ora, siccome questo seguito è esecrabile, ho per il mondo una folla di amic; che sostengono, di nascosto ben inteso, che l'ho scritta io. Neanche la gambetta di una a della Mano del defunto è opera mia, e non solo non ho mai fatto, ma mai farò un seguito del Montecristo. «Montecristo deve finire come un poema di Byron: nell'immensità, l'incertezza, l'ignoto!». Gabriella Bosco Lo spunto del romanzo offerto da un archivista Dantès arrestati) per la dedizione alla causa napoleonica e non per il sospetto di essere un agente dello straniero IL CONTE DI MONTECRISTO Alexandre Dumas Rizzoli SuperBur pp. 9/5, L IS.000 Anche in edizione Newton Compton pp. 896. L. 14.900 a cura di Riccardo Reim Gerard Depardieu e Ornella Muti nello sceneggiato tv «Il conte di Montecristo». Sotto: A. Dumas

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