E FERMI ACCESE LA PILA ALLO STADIO DI CHICAGO

E FERMI ACCESE LA PILA ALLO STADIO DI CHICAGO E FERMI ACCESE LA PILA ALLO STADIO DI CHICAGO Cronaca della prima reazione atomica a catena ■WMii11 UHI """^m RA tutta la gente che il 2 dicembre Y ^\ 1942 partecipò o assistè, comun- I 1 que, al primo esperimento della Pi- | la di Fermi nella palestra da tennis dello Stadio Stagg dell'università di Chicago, il più calmo era senza alcun dubbio Enrico Fermi. Aveva, infatti, preparato tutti i particolari dell'esperimento con l'abituale precisione ed era sicuro di poter fare una buona lezione. Intendeva dimostrare sino a qual punto comprendeva e aveva chiaro nella meni HM -ini te l'intero procedimento. Ogni fase dell'esperimento era stata calcolata, e le sue predizioni basate sulla teoria si sarebbero realizzate sino all'ultimo dei particolari. Non potevano non realizzarsi. Per lui l'esperimento non presentava alcuna preoccupazione. Stava sul palchetto alto tre metri tra i suoi due assistenti, i fisici Herb Anderson c Walter Zinn, e annunciava quello che sarebbe successo immediatamanto dopo nella Pila. La Pila si ergeva dall'altra parte del campo di tennis coperto e come monumento non era mi granché. Aveva una forma piuttosto sgraziata, era alta otto metri e mezzo, la base era quella di una casa quadrangolare in mattoni, senza finestre, mentre la cima si arrotondava verso il soffitto, in una rozza semisfera, incompleta. La struttura disegnata da Fermi, Anderson e Zinn era semplice, consisteva di barrette d'uranio, intervallate, ogni ventun centimetri, da mattonelle di grafite. Erano occorse quarantamila matto nelle di grafite, al massimo grado di purezza, ognuna delle quali larga e alta dieci centimetri e lunga quarantadue centimetri. C'era voluto tempo e fatica per mettere insieme tutto il materiale necessario, ma ora era lì e l'esperimento era in corsa. Ogni dieci quindici minuti Fermi ordinava che la barra di controllo venisse estratta di pochi centimetri e ogni volta il ritmo del ticchettio dei contatori accelerava. Via via la tensione dei testimoni aumentava. Il momento critico si avvicinava irrimediabilmente. Ma, d'improvviso, Fenili smise di armeggiare con il suo piccolo regolo calcolatore, e i suoi ocelli si distaccarono dagli indici degli strumenti per posarsi sugli astanti stupiti e preoccupati per l'interruzione imprevista. Con la massima calma Fermi disse: «Io ho fame, signori, andiamo a fare colazione». Alla mensa degli studenti, s'impose a tutti, dando l'esempio, non disse una parola sull'esperimento in corso. C'erano tante altre cose di cui parlare. E Fermi riteneva giusto ridurre la tensione prima della fase finale. L'esperimento riprese alle ore 14. Ricominciò la lezione di Fermi. Regolare, quasi monotona, con tutti i fatti che non facevano che confermare quanto Fermi ave- va appena preannunciato. Un ponte collegava la Pila e, sotto, il giovane fisico George Weil reggeva la barra di controllo che sporgeva dalla Pila. Tre serie di barre di controllo sorvegliavano che non si verificasse una reazione spontanea. «Sposta di quindici centimetri», disse Fenili alle 15,20. I contatori scattarono a fondo, ma poi tornarono al livello normale senza che la faccia di Fermi esprimesse la minima emozione. Cinque minuti dopo dette mi altro ordine: «Fuori di altri trenta centimetri...» e, mentre Weil faceva uscire la barra aggimise: «Questa volta dovremmo proprio esserci. Ora la reazione dovrebbe alimentarsi da sola. La traccia dovrebbe continuare a salire, senza più livellarsi...». Il ritmo di aumento era fenomenale a ogni lettura. Pareva esattamente l'inizio di mia vera e propria reazione a catena. Il ticchettio dei contatori che registravano l'irradiazione della Pila aveva assunto mia velocità folle. Fermi calcolò il ritmo di accrescimento nella lettura dei dati durante mi intero minuto. Se era destino che accadesse l'imprevedibile sarebbe avvenuto allora. Ma non avvenne nulla, come, del resto lui era strasicuro. Contùiuò comunque a controllare il tasso di aumento. Weil alla barra di controllo non distoglieva gli occhi dalla faccia immobile di Fermi. E, finalmente, Weil vide il suo maestro sorridere: prima fu appena un annuncio nel taglio della bocca e poi fu tutto insieme mia gran luce. «La reazione si sostenta da sola» disse Fermi e chiuse il suo regolo calcolatore. Per la prima volta era stata realizzata una reazione atomica a catena. Alle 15,03 Fermi parlò ancora: «Bloccate le barre di controllo in posizione di sicurezza e andiamocene; torneremo domattina...». Il sorriso era scomparso, la faccia era tornata la solita. Ma il fisico Eugene Wigner tirò fuori mi fiasco di Chianti che teneva in serbo da mesi per l'occasione e in casa Fermi si svolse una moderata festa con i più immediati collaboratori senza informare quasi Laura Fermi per chi e per cosa si festeggiava. Enrico Fermi era nato a Roma il 29 settembre 1900 da una famiglia di contadini piacentini. Stefano Fermi, il nonno, era stato il primo della sua famiglia a non lavorare la terra con le mani. Il piccolo Enrico a sei anni era entrato a scuola sapendo già leggere e scrivere, impa¬ rati a casa. A scuola aveva presto scoperto la matematica e se ne era sempre più appassionato nei suoi precocissimi studi. Ma più tardi tra matematica e fisica aveva scelto quest'ultima. Agli inizi della sua vita pubblica non era stato contrario al fascismo. Non si occupava troppo di politica perché era preso dalle sue ricerche e aveva poco tempo per il resto. Ma, quando si esprimeva, si esprimeva chiaramente. Onestamente. Non apparteneva, insomma, al gregge del regime e detestava la retorica. Conosciuto in tutto il suo ingegno, era stato coperto dal regime di onorificenze, di incarichi, ma anche di diffidenze e di sospetti proprio per la sua genialità; forse non se ne sarebbe andato dall'Italia se l'Italia non lo avesse messo nell'impossibilità di restare. Nel 1928, infatti, Fermi aveva sposato mia donna di grande intelligenza e grande cura, Laura Capon e da lei aveva avuto due figli, ma Laura Capon era ebrea. Nel 1928 questo non contava. Ma nel 1933 Hitler era andato al potere in Germania e da allora la propaganda antisemita era andata intensificandosi vergognosamente. Mussolini aveva da prima resistito. Nel 1938, però, erano successe tante cose. Il 10 novembre Fermi aveva ricevuto l'annuncio del conferimento del Premio Nobel e, contemporaneamente, era arrivata la notizia di una nuova serie di leggi razziali copiate da quelle naziste a cui Mussolini si era sottomesso. Il 6 dicembre la famiglia Fermi, Enrico, Laura, figli e domestica aveva lasciato l'Italia. Dopo le cerimonie svedesi per il Premio Nobel il 24 dicembre, la famiglia Fermi era salpata da Southampton con Franconia diretta a New York dove era arrivata il 2 gennaio 1939. Sbarcando il capofamiglia aveva detto alla moglie: «Abbiamo fondato il ramo americano della famiglia Fermi...». Non aveva ancora ricevuto la notizia che il 22 dicembre, in Germania, Otto Malin e Fritz Strassmann avevano comunicato di aver accertato, senza alcun dubbio, la presenza di bario radioattivo tra i prodotti del bombardamento neutronico dell'uranio. Oreste del Buono Giorgio Boatti Il 2 dicembre 1942 il più calmo di lutti gli scienziati presenti era proprio il premio Nobel fuggilo in Usa per le leggi razziali che colpivano la moglie Testi da leggere: Enrico Fermi, Physicist Emilio Segrè Prima edizione americana The University of Chicago, I970 Seconda edizione italiana con addenda Enrico Fermi, fisico Nicola Zanichelli I987 Atomi in famiglia Laura Fermi Arnoldo Mondadori 1968 Progetto Manhattan Groueff Arnoldo Mondadori 1968