SVIZZERA

SVIZZERA SVIZZERA Quattro lingue senza una patria Scrittori e editoria del Paese ospite alla Fiera del libro, che si aprirà mercoledì 7 a Francoforti ALTO il cielo, profonda La valle. Sembra uno slogan assai generico, ma è il titolo che la Svizzera propone per la sua spedizione verso Francoforte, dove è il «Paese ospite» alla Fiera internazionale del libro, che comincia il prossimo 7 ottobre. E, come spiegherà Iso Camartin nel discorso d'apertura, la prima sorpresa sarà scoprire come un Paese relativamente piccolo, con i suoi sette milioni d'abitanti, abbia «un'incredibile diversità di voci a sua disposizione». Tante voci, tante lingue: Camartin è un noto saggista grigionese, quindi ladino, e rappresentante quella più minoritaria. Ma è anche uno dei pochi che ha scelto di esprimersi nelle sue opere in tedesco, francese e italiano, il che vuol dire una difficile scommessa. Infatti, spiega Camartin, ciò accade molto meno di quanto si potrebbe credere in un Paese dove le distanze sono così limitate. «Il linguaggio della letteratura è complesso, e una modesta conoscenza delle altre lingue, tutta pragmatica, non è sufficiente». Perciò «gli scrittori delle diverse aree linguistiche restano, in certa misura, un mistero l'uno per l'altro, almeno fino a che le loro opere non siano disponibili in buone traduzioni». Alto il cielo, profonda la valle: ci sono alcune pagine deliziose nella Lingua salvata di Elias Canetti, dove il grande scrittore rievoca la sua adolescenza a Zurigo, dedicate a una celebrazione di Gottfried Keller, il grande scrittore ottocentesco, cui dovette partecipare insieme ai compagni di scuola. Era prevenuto, e dopo aver sentito con fastidio esaltare l'autore zurighese - di cui non sapeva nulla - prese un solenne impegno con l'amico del cuore: «Dobbiamo giurare, dobbiamo giurare tutti e due che non accetteremo mai di diventare celebrità locali». Keller non era ovviamente una celebrità locale, e il Canetti anziano fa ammenda. Ma è certo che quel suo antico giuramento era, senza che lo spesse, molto in sintonia con l'ambiente. Essere una «celebrità locale» è ancora oggi ciò che soprattutto sembra far paura a uno scrittore svizzero. Piuttosto si emigra, come fece Blaise Cendrars e ha fatto il poeta Philippe Jaccottet, esploratore dell'intimità umana e della natura, grande traduttore di Musil, Rilke, Ungaretti, Gongora e Mandelstam, che vive nel Sud della Francia. Se la valle è troppo «profonda», meglio uscirne. O alzarsi verso il cielo, come i due classici elvetici del secolo, Charles Ferdinand Ramuz (1878 - 1947) e Friedrich Dùrrenmatt (1921 - 1990). E comunque sia, ha ragione Camartin. L'elenco degli scrittori svizzeri è lungo, da Denis De Rougemont (indimenticato autore di L'Amore e l'Occidente, morto nell'85) ad Agota Kristof, di origine ungherese, che scrive in francese e gode di una larga attenzione internazionale; da Gritzko Mascioni a Fleur Jaeggy, che lavorano in Italia; da Giorgio e Giovanni Orelli, ticinesi, agli esponenti della letteratura in lingua tedesca, largamente maggioritaria: Max Frisch (drammaturgo e saggista di stampo brechtiano, scomparso nel '91, ampiamente tradotto da Einaudi e Feltrinelli) e poi Peter Bichsel e Adolf Muschg (pubblicati in Italia da Marcos Y Marcos). Bichsel è un maestro del racconto breve, neocrepuscolare, dove realtà minute e malinconiche cercano un riscatto. Muschg, considerato da molti il vero erede di Dùrrenmatt, è un romanziere ma anche un saggista polemico: soprattutto col suo Paese. I suoi Cinque discorsi di uno svizzero alla sua nazione che non è una puntano il dito contro la pretesa «innocenza» svizzera durante la seconda guerra mondiale. «Hitler ci ha fatto un dono su¬ perbo - spiega -: la coesione nazionale. Ci ha sollevati dai nostri problemi d'identità, consentendoci poi di utilizzare la stessa ricetta durante la guerra fredda. Solo oggi il problema torna in superficie, e in qualche modo disturba, «fa male». Ma io sono ottimista i giovani sono diversi dai genitori, il Paese diventa più interessante, comincia a vivere». I tempi cambiano, e gli scrittori lo hanno capito. Dello stesso parere è Giovanni Orelli, che ha pubblicato sia in Italia sia in Francia. Che cos'è Patria? E' qualcosa fondato, si chiede, sulla lingua (tesi di un celebre ticinese come. Francesco Chiesa) o sul vivere insieme come «plebiscito quotidiano», e cioè il criterio in base al quale gli abitanti del Canton Ticino hanno scelto, due secoli fa, di stare nella Confedera¬ zione Helvetica anziché nel Regno di Sardegna? Fedele alla seconda ipotesi, Orelli ha scelto ad esempio di affidare i suoi manoscritti agli «Archives littéraires suisses» di Berna piuttosto che al fondo dell'Università di Pavia o alla biblioteca di Lugano. Ma, ci spiega, quest'idea di far interagire le lingue, di «vivere insieme» anche e soprattutto nella cultura, non è facilmente realizzabile. Per esempio, che cosa si aspetta la Svizzera, e cioè la gran maggioranza dei lettori di lingua tedesca, da un autore del Ticino? «Siamo una zona turistica, e per il Nord rappresentiamo un mondo di grande interesse. Ma il risultato è che a un nostro scrittore si chiede, implicitamente, che parli di cultura contadina, di montagna arcaica. Le faccio un esempio: il mio libro L'anno del- la valanga è uscito prima in tedesco che in italiano, mentre // sogno di Walacek è appena stato pubblicato da Gallimard, e «funziona» perché in sé non rappresenta un tema convenzionalmente svizzero». Ora quattro romanzi su cinque di Orelli (tutti editi in Italia da Einaudi, Donzelli, Marcos y Marcos) sono pubblicati anche in francese, ma ci son voluti vent'anni per arrivarci. Un segno che il multilinguismo ha ancora molta strada da fare, e nonostante i finanziamenti della Pro Helvetia, l'ente culturale di Stato, che incoraggiano proprio le traduzioni dall'una all'altra lingua, è una strada difficile. Il problema si riflette sull'editoria, necessariamente molto frammentata. Gli editori sono circa 400, tutti di dimensioni medio-piccole; pubblicano insieme 10 mila nuovi titoli all'anno, di cui il dieci per cento in traduzione, con una giro d'affari globale che, in lire, vale 500 miliardi. Sono cifre rispettabili, ma sempre tenendo conto di una particolarità tutta elvetica: che ogni editore appartiene a una lingua. Esemplare il caso di Diogenes, il più importante di tutti con i suoi 60 dipendenti e un fatturato sui 60 miliardi, che pubblica a Zurigo ma soprattutto (all'80 per cento) per il mercato «pantedesco». Lo stesso si può dire per il più piccolo Amman, o per le francofone Edition de l'ai¬ re e Edition d'en bas, mentre gli italiani vivono in una situazione particolare (e particolarmente disagiata). Come ci spiega Libero Casagrande, storico editore ticinese, il mercato interno è minimo (300 mila abitanti) e quello «esterno» è quasi irraggiungibile per via del sistema di distribuzione italiano e dei costi altissimi di spedizione. «E poi - scherza amaro Casagrande - noi siamo extracomunitari». Chi non scherza per nulla è Daniel Keel, l'editore di Diogenes, personaggio di grande spicco e prestigio, che ha pubblicato i maggiori scrittori della Confederazione anche se, dice, «qui molti ci accusano di non fare abbastanza svizzeri». Ma che cosa vuol dire «svizzero», gli chiediamo. Dov'è l'anima di un Paese, nella sua lingua? «I nostri autori scrivono in tedesco, e direi che si "sente" sempre da dove vengono. D'altra parte non accade la stessa cosa leggendo, ad esempio, l'italiano di Calvino?». E allora l'anima svizzera qual è? Ora Keel un po' scherza anche lui. «Diciamo che qualcuno non ce l'ha. Siamo il popolo più noioso del mondo, perché viziato. Però pensi a Dùrrenmatt: altro che noioso, lui è il vero classico del suo tempo, un classico della lingua tedesca più che svizzero. E' unico, universale. E viene dall'Emmental». Mario Baudino Ramuz e Dùrrenmatt sono i due classici elvetici del secolo Di valle in valle aleggia una paura, già evidenziata nella «Lingua salvata» da Canetti: essere una celebrità locale Quattro lingue senza una patria Scrittori e editoria del Paese ospite alla Fiera del libro, che si aprirà mercoledì 7 a Francoforti perbo - spiega -: la coesione nazionale. Ci ha sollevati dai nostri problemi d'identità, consentendoci poi di utilizzare la stessa ricetta durante la guerra fredda. Solo oggi il problema torna in superficie, e in qualche modo disturba, «fa male». Ma io sono ottimista i giovani sono diversi dai genitori, il Paese diventa più interessante, comincia a vivere». I tempi cambiano, e gli scrittori lo hanno capito. Dello stesso zione Helvetica anziché nel Regno di Sardegna? Fedele alla seconda ipotesi, Orelli ha scelto ad esempio di affidare i suoi manoscritti agli «Archives littéraires suisses» di Berna piuttosto che al fondo dell'Università di Pavia o alla biblioteca di Lugano. Ma, ci spiega, quest'idea di far interagire le lingue, di «vivere insieme» anche e soprattutto nella cultura, non è facilmente realizzabile. Per esempio, che cosa si SVIZZERA