Curcio libero, si chiude un'epoca di piombo
Curcio libero, si chiude un'epoca di piombo Il tribunale di Roma gli ha concesso la libertà condizionale dopo ventiquattro anni di carcere Curcio libero, si chiude un'epoca di piombo «Ha sinceramente messo in discussione le sue scelte» ROMA. Ora, hanno deciso. E così si chiude un'epoca remota o, forse, fin troppo vicina. Quello che tutti indicavano come l'ideologo delle Brigate rosse torna ad essere un libero cittadino. Il provvedimento che riguarda Curdo Renato, anni 57 compiuti il 23 settembre, parla di «libertà condizionale»: se si comporterà come si è comportato finora da quando, nel 1993, gli venne consessa la semilibertà, la legge lo dimenticherà. Oggi lavora nella cooperativa editoriale «Sensibili alle foghe» che lui stesso ha contribuito a fondare. Senza il prowedimento sarebbe tornato libero il 12 novembre del 2002. In fondo, dietro alle sbarre aveva trascorso 24 dei 30 anni ai quali lo avevano condannato per attività rivoluzionarie, tutte annotate nel codice penale, di cui riempivano cospicua parte. Una decina le condanne per banda e insurrezione armata, evasione, sequestro di persona a scopo di estorsione e concorso morale in omicidi attribuitigli quando già era in carcere. Come quando nel gennaio 1981 lo accusarono per l'ultima volta: le bierre avevano sequestrato il giudice Giovanni D'Urso. Dunque, di Curdo guerrigliero forse non si parlerà più. «Non ho titolo né ruolo per commentare il prowedimento», dice Gian Carlo Caselli, procuratore di Palermo, ieri a Bruxelles: come a respingere un ricordo. Perché fu lui, negli Anni Settanta, a dirigere l'inchiesta sulle bierre, a far catturare il clandestino e a interrogarlo. Erano gli anni del muro contro muro. Metodico e tenace, Caselli non si era scoraggiato quando l'altro, nel primo interrogatorio fatto a mezzanotte e un quarto, gli aveva risposto: «Sono un prigioniero politico, anzi, di guerra». La prima condanna era arrivata di do menica, il 18 maggio 1975, a Reggio Emilia: undici anni per due «espro pri proletari», insomma, rapine in banca per autofinanziamento. Sette mesi prima, a Saluzzo, era stato giocato da un agente segreto con il saio Silvano Girotto, frate cappuccino. Addosso aveva 52 mila lire; un ap- punto su carta a quadretti per il periodo 2-16 settembre; una carta d'identità con la sua foto a nome Armando De Filippo e una patente intestata ad Armando Puccini. Con lui era finito in manette anche Alberto Franceschini, altro leader dell'organizzazione clandestina, quello che aveva interrogato il magistrato Mario Sossi, per 34 giorni prigioniero dei brigatisti. Franceschini ha esaurito il suo debito con la legge nel '92. Dice: «Poveraccio, Renato, era il minimo che potevano dargli. Eppoi, è un atto dovuto non un regalo. E' una cosa importante, importantissima, non foss'altro per non esser costretti a rientrare la sera in carcere». Poveraccio un accidenti, ribatte Maurizio Puddu, di Torino, presidente dell'Associazione familiari vittime del terrorismo e lui pure bersaglio delle pistole dei brigatisti. «Non entro nel merito della decisione. Se è un beneficio che gli spetta di diritto, ne prendo atto. I familiari di chi è caduto sotto i colpi dei terroristi rivendicano però con forza dai nostri politici la stessa attenzione che la magi- stratura riserva ai protagonisti di quegli anni di lutti e di dolore. Ci sono ferite che non si sono rimarginate, c'è chi attende inutilmente da anni un segno di presenza e di attenzione da parte dello Stato». GU fa eco Ileana Lattanzi, vedova del maresciallo Oreste Leonardi, capo della scorta di Aldo Moro: «Ormai nulla ci può più meravigliare. Del resto sono già tutti fuori e il nostro sdegno non viene ascoltato, di cosa sorprendersi?». Ed ha aggiunto: «Non cerchia- mo vendetta, soltanto giustizia. Ci basterebbe poter constatare che i terroristi condannati per quei gravissimi reati scontano fino in fondo e per intero la pena inflitta loro dalla magistratura. Ma ormai siamo stanchi, la nostra indignazione è inutile». Per la verità con pistola e mitra, ha ricordato ima volta Tonino «Loris» Paroli, bierre della colonna torinese, «Curcio era un disastro» e, difatti, reati di sangue non risulta ne abbia commessi. Forse anche per questo l'attuale difensore, Titta Madia, può commentare: «Lui è il simbolo di una generazione che ha sbagliato per nobili ideali. Questo prov¬ vedimento è importante per chiudere un'epoca storica». Ed ecco come il tribunale di sorveglianza tenta di spiegare la decisione: «Le relazioni di sintesi, redatte dall'equipe della Casa circondariale di Roma, registrano una progressiva maturazione del condannato, sintomatica di una evoluzione personologica innestata su di una acuta capacità introspettiva e su di un impegno volto al sociale nei suoi aspetti di sofferenza e marginalità». Insomma, anche se non ha mostrato pentimento si è guadagnato la libertà per la «sincera rivisitazione e messa in discussione delle scelte precedentemente operate e sfociate nei delitti che oggi sta espiando». Un'espiazione «fin troppo lunga», per Giuliano Pisapia, presidente della commissione Giustizia della Camera. «Un provvedimento del genere penso possa essere un segnale per porre fine definitivamente alla legislazione di emergenza e alle conseguenze di quelle leggi che ancora tengono in carcere persone chi; hanno scontato oltre vent'anni». Vincenzo lessandoti I familiari delle vittime «Ci sono ferite che ancora non si sono rimarginate» Pisapia: «E' un segnale che la legislazione di emergenza non deve più esistere» vrt
Luoghi citati: Bruxelles, Reggio Emilia, Roma, Saluzzo, Torino
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