Inni, Iacrime e rose rosse Nasce il partito di Cossutta

Inni, Iacrime e rose rosse Nasce il partito di Cossutta Inni, Iacrime e rose rosse Nasce il partito di Cossutta ROMA. Ar-man-do Ar-man-do! La riunione, convocata in quel palazzo delle Esposizioni che è stato luogo simbolico della vittoria dell'Ulivo, la riunione nella quale stretti attorno a Cossutta si decide di restituire a Prodi la maggioranza che Bertinotti voleva sottrargli, inizia come un teatro emozionale. Niente a che vedere con quella «democrazia dei sentimenti» cara agli ulivisti, e inventata da Anthony Giddens, il consigliere di Tony Blair. No, questa è una rivincita della storia fatta di canti, inni, lacrime, rose rosse. Una rivincita comunista. Alla fine, Bertinotti perderà anche la propria segretaria. La minuta e precisissima Antonella, che se stava sempre accanto al segretario, da oggi non lascia più un attimo Cossutta. E insomma, dice, «se un comunista chiama, io rispondo». Cossutta è letteralmente somjuacsc^da unjondata emQti^&che consistè urtaci di minatòri dèi Sulcis, virile stretta di mano con 10 scrittore Predrag Matvejevic, consegna da parte del pittore Apicella di disegno raffigurante 11 Cossutta medesimo che s'è infilato al collo un portaocchiali con dentro Bertinotti, e poi applausi e stropicciamento di dirigenti e militanti vari. Il compagno Claudio, zazzera rasata e stella rossa all'occhiello, dà un segnale alla regia e subito parte «Bandiera rossa» in dolby. stereo:-Melina, la segretària- del gruppo, regala al presidente, «da parte delle compagne comuniste», un mazzo di rose rosse Baccarat che neanche la Callas. E Cossutta, che sia pure «da nonno», come dice lui, è sensibile al fascino femminile, si emoziona più della sera prima, quando alla fine di «Porta a porta» Anna Kanakis, ancorché finiana di rito ortodosso, l'ha abbracciato e baciato, «lei sì, è un uomo coerente». L'Armando, tornato a casa l'ha subito-raccontato alla moglie Emi, che se ne sta in un angolo a godersi la riscossa. E' il giovane Jacopo Venier, «federale» di Trieste, a dare lettura del documento firmato da tremila, dicasi tremila, quadri e dirigenti periferici che chiedono a Cossutta e ai suoi di votare la fiducia al governo Prodi. E' il documento architrave della scissione da Bertinotti. Vi si dice che «davanti alla scientifica determinazione per la rottura noi non ci rassegniamo a veder morire il partito per il quale abbiamo lottato». Luciano Ghelli, il potente segretario della Toscana, un omone grande grosso e barbuto, piange a dirotto. Venier insiste «una maggioranza ristretta ha stravolto il mandato congressuale del partito». La platea si riscalda quando arriva l'ex partigiano Manzi, a nome dei comandanti della Seconda e Quarantacinquesima Brigata Garibaldi del Piemonte, «Noi siamo di una generazione resistenziale ormai in esaurimento, ma tu Armando continua a combattere». Che l'Armando non si senta affatto sul viale del tramonto lo si capisce subito. Afferra il microfono, prende le distanze dal governo Prodi e insieme spiega perché «le masse» non possono farne a meno. Manda a dire a D'Alema, sospettato di collusione con Bertinotti, «se lo tolga dalla testa, noi non saremo lì ad ascoltare le sue disposizioni». Ridice che la politica non può essere velleitaria e rinunciataria. Racconta «il dramma che c'è dentro di noi, ma ci sono delle volte in cui bisogna disobbedire in nome dei bisogni dei lavoratori». E alla fine, dopo una votazione a forza di applausi, e gente che alzava non una ma due mani, in nome del rinato comunismo, in un teatro romano che potrebbe essere anche in un altro tempo e luogo della storia, lo dice: Prodi chiederà fiducia chiamandoci nome per nome, e noi gliela daremo. Ma l'Armando, sempre poi scusandosi «ho alzato la voce», con una passione e una foga che nessuno gli aveva mai visto, ha anche mandato a dire a Bertinotti che «Cossutta non è Crucianelli, Cossutta non smette di combattere». E stessa passione, stessa foga, ma molta piti commozione nel finale, brandendo la corbeille di rosse rosse, davanti a una platea tutta col pugno alzato, «sapeste quanto vorrei prendere questi fiori, e restare a casa a riposarmi, compagni, ma invece non posso, adesso ho bisogno di voi, e voi avete bisogno di me». Poi, sottraendosi con difficoltà alla folla, di corsa a Montecitorio. Riunione fino a tarda sera nei locali del gruppo, «gli unici agibili, perché il partito di Bertinotti non lo è più da lungo tempo». C'è da trovare un nome, o decidere se rivendicare il marchio della scissione alla Bolognina, e la sede, e anche i soldi. C'è, soprattutto, da tenere fermi gii animi, sotterrando le «anni», come ai tempi di Togliatti. Perché con gli altri «rischia di finire a randellate», sospira Oliviero Diliberto. Il quale però, con la perfidia di chi sa di aver vinto, dice che venerdì, quando sarà il momento del voto a Prodi, cederà metà del suo tempo per parlare a Bertinotti. Ma Prodi, ironia della sorte, dopo la riunione che ha riportato in trionfo il comunismo con tutti i suoi simboli, può stare tranquillo. Quando domenica mattina ci sarà la manifestazione cossuttiana al cinema Metropolitan, il suo governo sarà forse sorretto da una maggioranza appena più stabile e sicura. Perché nei parlamentari bertinottiani, dicono da palazzo Chigi, s'è già aperta una «crisi di coscienza», e due di loro voteranno per il governo venerdì mattina. Antonella Rampino Folla all'assemblea dopo il dibattito parlamentare «Ci sono delle volte in cui bisogna disobbedire in nome dei bisogni dei lavoratori» E anche la segretaria di Bertinotti segue i dissidenti L'ex presidente di Rifondazione sommerso da abbracci «Vorrei tanto andare a casa e riposarmi Ma voi avete bisogno di me e io di voi» Domenica a Roma l'atto formale

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