Marino: cavilli, non fatti
Marino: cavilli, non fatti Marino: cavilli, non fatti «Ma vorrei vedere Adriano libero» «Preoccupato di fronte a un caso che si riapre? No. Sono anzi molto sereno. Un conto sono i cavilli giudiziari, un altro la verità storica. Chi ha interesse a questa vicenda e capacità di comprenderla sa bene come sono andate le cose». Signor Leonardo Marino, lei è l'accusatore di Sofri, Bompressi e Pietrostefani. La Corte Costituzionale non ha considerato «cavilli» i nuovi elementi a supporto dell'istanza di revisione del processo. Ora dovrà pronunciarsi ancora la corte d'appello di Milano. E le porte del carcere di Pisa potrebbero aprirsi. «Guardi, quando ho deciso di parlare, non l'ho fatto per mandare in galera Sofri. L'ho fatto per dire la verità. E i giudici hanno stabilito che non mentivo. Ciò premesso, non provo al¬ cuna soddisfazione a sapere i miei ex compagni di Lotta continua in carcere. Leggo di un emendamento che, se approvato dalle Camere, darebbe ai giudici di Brescia anziché a quelli di Milano l'ultima parola sul processo. Se questo serve a farli uscire di galera, benissimo. Ho scritto un articolo sul prossimo numero del Borghese per auspicare questa soluzione, che a mio parere dovrebbe valere per tutti i condannati degli anni di piombo». Proprio quello che Sofri, Pietrostefani e Bompressi rifiutano: essere equiparati ai terroristi. «Già. Al processo, Sofri ha parlato di "ragazzate". Si riferiva a Carlo Albonetti, Massimo Manisco e Maurizio Pedrazzini: giovani militanti di Lotta continua trovati in possesso di armi provenienti dalla rapina all'arme- ria "Marco Leone" di Torino, una di quelle di cui ho reso testimonianza in aula, compiuta dalla struttura illegale dell'organizzazione. Questa è la storia. Questi sono i riscontri al mio racconto». Non ci sono però i riscontri del suo colloquio con Sofri al comizio di Pisa, quello che è costato all'ex leader di Lotta continua la condanna a ventidue anni. «I giudici hanno creduto a me, anche perché loro si sono ostinati a dire che mi ero inventato tutto, che le mie accuse erano false dalla prima all'ultima. Una tesi insostenibile, eppure avallata da gran parte dei giornali e dalla televisione. Su da me hanno detto e scritto qualunque cosa. Quando, la primavera scorsa, la Rai ha girato un servizio sul caso Calabresi, sono venuti al mio paese, Bocca di Magra. Qui mi conoscono tutti, mi stimano, sono solidali con me. E i giornalisti del servizio pubblico sono andati a intervistare l'unico abitante che è stato di Lotta continua, e ha raccontato che mi sarei arricchito con la mia confessione. Altri ex leader hanno tentato di dipingermi come uno che non c'entrava nulla con Le; io, che ero uno dei militanti operai più attivi nella Torino dell'autunno caldo». Resta da capire per quale motivo lei abbia deciso di parlare dopo sedici anni. Per rancore? «No, anche se ce ne sarebbe motivo. I capi di un tempo ci hanno mandato allo sbaraglio, ci hanno indirizzato sulla via della lotta armata; poi hanno fatto retromarcia, hanno trovato qualcosa di meglio da fare. Ma ormai era tardi. Io ne sono uscito solo con la confessione, altri hanno ucciso o sono stati uccisi», [al. ca.) «Mandati allo sbaraglio dai capi, che poi han fatto retromarcia, c'era di meglio da fare» Leonardo Marino, l'uomo che accusa Sofri, Bompressi e Pietrostefani dell'omicidio del commissario Calabresi
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