Così sogna il teatro yiddish

Così sogna il teatro yiddish Festival a Parma Così sogna il teatro yiddish PARMA. Quest'anno il tradizionale Festival di Teatro di Parma, esteso a Reggio Emilia, è dedicato alla cultura di Israele, non solo drammaturgica - rientrano anche danza, musica, letture ed esposizioni di libri, persino saggi di cucina. La settimana parmense è stala aperta da un avvenimento intitolato «Il sogno yiddish», antologia, o meglio, lezione sul teatro yiddish, guidata da Moni Ovadia. Il teatro yiddish e per la scena e anche per lo schermo del nostro secolo quello che il teatro dell'arte fu per l'arte drammatica del Settecento, ossia una fonte, indispensabile e indiscussa ma allo stesso tempo retrospettivamente inafferrabile. Come sappiamo, infatti, l'antica e vivacissima lingua composita parlata dagli ebrei poveri di un'estesa parte dell'Europa orientale diede vita a spettacoli popolari che per l'uso della musica e del ballo e soprattutto per la caratteristica, originale natura del umorismo sfoggiatovi (vedi quello che gli americani chiamano «wisecrack», la battuta ironica con cui il protagonista commenta le sue disgrazie, goffaggini ecc.), furono alla base, tramite gli innumerevoli talenti che varcarono l'Atlantico, sia della commedia di Broadway, sia del cinema di Hollywood. Il guaio è che pei- cause tristemente note, il teatro yiddish non esiste più hi nessun luogo, e quindi tali affermazioni sono difficili da verificare. Nel 1987 tuttavia, sconfiggendo addirittura la legge che scoraggia idiomi diversi dall'ebraico, alcuni sopravvissuti hanno rifondato un teatro di questo nome a Tel Aviv, e da allora si dedicano a riproporre i lavori fondamentali della tradizione, con successo se il loro pubblico non solo si è allargato, come ci dicono, ma la sua età media è diminuita. Ecco: sabato sera alcuni elementi di questa istituzione si sono esibiti al Regio in numeri del loro repertorio, in particolare in scene tratte da testi di Avraham Golfadden (il patriarca del teatro yiddish) e di Mendele Mocher Sforirn, il cui «Viaggi di Beniamino Terzo» mostra due ingenui ebreuzzi russi, un Don Chisciotte e un Sancirò Panza, in viaggio a piedi verso la Temi Promessa Gli attori recitavano sotto gli occhi di Moni Ovadia, seduto a un tavolino laterale col compilo di introdurli, nonché, avremmo speralo, di tradurre almeno qualcosa dei dialoghi: ma Moni, impeccabile nella prima mansione, ha trascurato la seconda, abbandonandosi a un'ammirazione muta e adorante, che d'altro canto l'esibizione dei commedianti e sembrata giustificare. Non capivamo le parole, ma i ritmi, i gesti, i tempi comici erano degni dei grandi, le melodie che li accompagnavano erano piacevoli, e meravigliosi erano gli interventi di ima cantante-soubrette, Monica Vardimon, dalla voce sublime. Per pochi c'è stato poi un piccolo spettacolo israeliano odierno in un inglese molto accentato, «The Anthology», nel seminterrato del Teatro Due. Al lume di candela gli spettatori siedono intorno a un pianoforte dove una donna (Smadar Yaaron, anche autrice) suona con scioltezza e chiacchiera, una cicalata inizialmente frivola e paradossale sulla superiorità dei sempre plagiati musicisti ebrei, in realtà inventori del valzer viennese, dello spiritual negro, del tango argentino e persino dell'inno nazionale tedesco. Andando avanti la dorma si innervosisce, si alza, chiama a gran voce il tiglio, apprendiamo che è una superstite degli stermini. Il figlio esce di sotto il pianoforte, è un personaggio grottesco alla Bracardi, che prima cerca di stabilire un contatto con gli spettatori, poi smania rievocando il lager, sale sul pianoforte, pesta i piedi in piena crisi isterica, infine si rannicchia sul coperchio e tace. Lo lasciamo lì, uscendo in punta di piedi. Repliche fino al 5. Masolìno d'Amico

Persone citate: Avraham Golfadden, Beniamino Terzo, Bracardi, Don Chisciotte, Moni Ovadia, Monica Vardimon, Panza

Luoghi citati: Hollywood, Israele, Parma, Reggio Emilia, Tel Aviv