L'infanzia perduta dell'orfano Béjart di Luigi Rossi
L'infanzia perduta dell'orfano Béjart L'autore interviene anche in video per narrare i suoi primi anni di vita nella natia Marsiglia L'infanzia perduta dell'orfano Béjart Al Teatro Regio il trionfale «Schiaccianoci» autobiografico TORINO. Béjart alla ricerca dell'infanzia perduta. Il suo nuovo «Schiaccianoci», che ha inaugurato al Regio Torino Danza, è una creazione dichiaratamente autobiografica nella quale interviene, da un video, lo stesso autore per narrare i suoi primi anni nella natia Marsiglia. La storia del piccolo Maurice, che trascorre a sette anni la sua prima notte di Natale orfano di madre, ci aveva messo in sospetto di una caduta verso un sentimentalismo dolciastro alla Dickens, che in realtà è stato evitato ricorrendo ad una ironica fantasia quasi da music-hall. Se la madre è una elegante signora anni Trenta, gli angeli e le fate potrebbero uscire da un cabaret completi di paillettes e lustrini. E poi c'è il ragazzo Béjart che si traveste da Mefistofele, abbaglia la sorella da minuscolo Faust con cappello piumato (immagini che hanno riscontri reali in fotografie dell'epoca) e fa intervenire il gatto Felix dei cartoni animati. Insomma siamo ad una lettura dell'ottocentesco «Schiaccianoci» diversa da quelle innumerevoli che abbiamo visto, dal soffice plum cake natalizio con cioccolatini della tradizione anglosassone alla psicoanalisi dell'ultimo Nureyev. Anche qui fa capolino il dottor Freud, ma non per raccontare la maturazione della ragazza Clara dalla pubertà alla consapevolezza sessuale, ma piuttosto per rispolverare il vecchio complesso di Edipo. All'immagine della madre è elevato un autentico monumento, un'alta statua di donna nuda e incinta che troneggia in mezzo alla scena, assai più grande dell'albero di Natale solitamente incombente su questo balletto. Simulacro e icona di stile surrealista dalla cui spaccatura alla Dalì sorgono fiori e immagini serene e sulla quale il bambino si inerpica chiedendo protezione. Il balletto di Marius Petipa (ma solo per il libretto, la coreografia è di Lev Ivanov ed è errore parlare di «originale» del primo autore per il passo a due finale) richiama anche la presenza dello stesso artista marsigliese in scena nella forte caratterizzazione di Gii Roman, l'ultimo veterano del Béjart Ballet Lausanne che ha eseguito la novità. E poi c'è il personaggio di Bim, abituale controfigura dello stesso Béjart, interpretato dal giovanissimo e simpatico Damaas Thijs, guizzante folletto onnipresente. La madre è l'elegantissima Elisabet Ros, che non ha nulla di patetico se non forse la frase di commiato: «Sto partendo per un lungo viaggio, promet¬ timi di essere saggio». La sorpresa è leggere in locandina, quale «fata madrina», il nome della veterana Yvette Horner, ottuagenaria accordéoniste che interviene in scena incredibilmente bardata con un tutù tricolore francese disegnato con gusto Kitsch da Jean-Paul Gaultier. La Horner si sovrappone a momenti alla parte orchestrale di Ciaikovski, ma ha composto una sorta di danza musette in cui è specialista da sempre. Le famose «danze caratteristiche» del secondo atto sono pure un po' tirate per i capelli verso la declinazione autobiografica. La Spagna trasloca nella Camargue dove il piccolo Bim vede la sua prima corrida; i cinesi vanno in bicicletta per le vie di Marsiglia; i russi sono strettamente sovietici con tanto di bandiera rossa accanto ai personaggi di Diana e Atteone della Vaganova. La serata, con esito pressocché trionfale, si è chiusa con il passo a due pseudo-originale eseguito, non del tutto impeccabilmente, da Christine Blanc e Domenico Levré. Annunciato, come detto erroneamente, di autentica derivazione petipiana. Luigi Rossi
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