La recessione dell'Oriente bussa ai templi dello stile

La recessione dell'Oriente bussa ai templi dello stile SU UN BUSINESS La recessione dell'Oriente bussa ai templi dello stile SMILANO I allungano, si allungano. Non è facile per il profano, a dire il vero, individuare un «trend» preciso tra passerelle, stand, sfilate improvvisate nei mille «showroom» annidati nel quadrilatero della moda e nei pressi della Fiera. Ma anche stavolta la legge di sir John Maynard Keynes sembra trovare conferma. La lunghezza delle gonne, aveva teorizzato negli Anni 30 il maggior economista del secolo, è inversamente proporzionale all'andamento dei listini azionari: nei tempi dell'euforia, come nei ruggenti Anni 20, l'orlo risale; quando si annunciano i venti della recessione i tessuti tendono a coprire, quasi a proteggere il corpo femminile. E la recessione che scuote i mercati asiatici, Giappone in testa, aleggia, ospite indesiderata, nell'aria della moda milanese. A sorpresa, poi, ci si è messa pure la discesa del dollaro, a rendere più pesante l'atmosfera. La moneta americana sotto le 1700 lire, secondo le proiezioni della Federtessile, vuol dire una perdita del 5% secca per le aziende che hanno fissato i prezzi prima dell'estate. Altri segnali negativi non mancano: a IdeaBiella, chiusa pochi giorni fa, sono scomparsi, in pratica, i coreani e il fatturato per il '98 s'annuncia, in media, in calo del 5%; nel Far East e in Giappone, mercato numero due del lusso italiano, le vendite registrano perdite pesanti, anche nell'ordine del 20%. Pure l'import diventa più aggressivo: Portogallo e Irlanda si affacciano sui mercati con un costo del lavoro altamente competitivo e sgravi fiscali eccezionali. Gli analisti finanziari prevedono, in sintesi, un anno moscio, con una crescita media dei fatturati nell'ordine del 3-5%, ma con cadute pesanti, anche del 20%, per i più esposti nell'Estremo Oriente. E l'anno prossimo non andrà meglio di sicuroMa, nonostante la crisi dei mercati e la sgradevole sensazione che il prossimo futuro non riserva niente di buono, non si respira aria di sconforto o di rassegnazione tra i grandi del «made in Italy». Anzi, la corazzata del tessile-abbiglia- mento di casa nostra è pronta a reagire, forte dei suoi primati: poco meno di una lira su tre spesa nel mondo in prodotti di lusso (ovvero 23 mila miliardi su un mercato complessivo di 75 mila miliardi) fa capo a prodotti italiani; se si passa alla fascia dei consumi medio-alta, una torta da 112 mila miliardi, i prodotti italiani assorbono più di 4 lire su 10, per un totale di 25 mila miliardi. Un fenomeno tutto italiano, non inquinato nemmeno più di tanto dal fenomeno della «delocalizzazione», ovvero il trasferimento all'estero di prodotti con il marchio di casa nostra. «Ci sono vantaggi economici - ammette Luciano Benetton - ma ormai la qualità è troppo importante, soprattutto sui mercati più importanti, come quello tedesco. Meglio non rischiare...». In cifre, infatti, gli impianti all'estero in mano italiana non sono gran cosa: 233 aziende per 52 mila addetti e un fatturato di 4500 miliardi, solo il 3% di quanto vale il sistema moda italiano. Per difendere questi primati il «made in Italy» è pronto a sparare le sue cartucce, a partire dalla rete commerciale, necessaria per attrarre i compratori. Il Far East frena? La settimana scorsa, a Dalian, in Manciuria, ha aperto un nuovo punto vendita Genny-Byblos; ma l'azienda marchigiana ha semplicemente seguito la strada aperta dalle sorelle Fendi, che a Dalian hanno aperto ad agosto. In mezzo, il 19 settembre scorso, sempre a Dalian, c'è stata pure la vernice di Etro. Max Mara, intanto, rafforza le sue guarnigioni ad Omotesando, il quartiere della moda di Tokyo, con un grande «store» dedicato alla linea «Marina Binaldi». E non c'è solo l'Asia: la maison Versace (fatturato a fine anno, secondo le previsioni, del 3% in più) scommette, ad esempio, sul Sud America: Buenos Aires, Santiago, Bogotà e Caracas. Ma il vero campo di battaglia è Milano, sempre più capitale della moda. «La città meno cara al mondo - commenta l'avvocato Domenico De Sole, amministratore di Gucci - se guardiamo al rapporto costi-incassi, senza dimenticare il prestigio». E Gucci è stato di parola, con un mega-store appena inaugurato in via Montenapoleone. Qualche centinaio di metri più in là, ha replicato il socio-nemico Prada, che inaugura il suo store in galleria. Armani, il principe, medita il colpo da maestro: un immenso negozio-cattedrale nell'ex Alemagna di via Manzoni. Le cifre? Si favoleggia che, per rilevare la licenza di Cova, pasticceria storica all'angolo di via Sant'Andrea, c'è chi è disposto a staccare un assegno da 10 miliardi, poco meno per il Sant'Ambroeus in corso Matteotti. «Il gioco si fa sempre più duro - spiega Carlo Pambianco, il consulente aziendale numero uno del settore, quasi un chirurgo pronto ad intervenire ai primi problemi aziendali - i grandi sono e saranno sempre più forti, i piccoli sempre più deboli». Dietro certe spese, pubblicità massiccia in te sta, c'è la volontà di trasmettere un messaggio ai concorrenti: «Si gnori, io posso. E voi?». «E' un momento particolare chiude Pambianco - dove sarà decisiva la capacità finanziaria...». Ecco perché, nonostante la crisi dei listini, l'anno finanziario della moda si annuncia rovente: i grandi del «made in Italy» sono troppo piccoli, solo sette oltre i 1000 miliardi di fatturato (Benetton, Marzotto, Max Mara, Hdp, Giorgio Armani, Gucci e Prada), solo 10 (vanno aggiunti Versace, Ferragamo e Ittierre) sopra i 500. L'imperativo, per tutti, è crescere, magari attraverso acquisizioni (sembra la scelta di Armani, è quella di Hdp) o matrimoni più o meno interessati (sarà la sorte di Gucci-Prada?). L'importante è badare alla salute, insomma, in attesa che le gonne tornino a salire... Ugo Bertone Per difendere i suoi primati il «made in Italy» rafforza la rete commerciale