La Cina antica, con occhi d'oggi e balli briosi per spose americane di Masolino D'amico

La Cina antica, con occhi d'oggi e balli briosi per spose americane TEATRO & TEATRO La Cina antica, con occhi d'oggi e balli briosi per spose americane DUE commedie con musiche, una cinese e una americana. Quella cinese risale alla fine del '500, si intitola, in inglese, Feony Favilion («Il padiglione delle peonie»), e il suo adattamento all'Olimpico di Roma, tappa di una tournée mondiale, è fra le più convincenti letture aggiornate di un testo antico che io ricordi, anche se le premesse potevano preoccupare: non per nulla il responsabile, il regista americano Peter Sellare, è noto per operazioni tipo un «Don Giovanni» di Mozart nel Bronx fra topi morti e tirate di coca. Anche l'odierno raro classico dell'opera orientale si presenta in modo aggressivo, con grappoli di televisorini appesi a mo' di fiori ad alberi stilizzati contro un fondale neutro su di un palcoscenico che ospita pochi altri elementi - schermi di vetro, un lettino da ospedale - ed è incorniciato da altri grossi video impilati lateralmente; senonché poi, sorpresa, la capra del rispetto dell'originale si salva insieme coi cavoli dell'intrattenimento, tanto che tre ore dopo si esce con la sensazione di avere stabilito con questo lavoro lontano un contatto più intimo che dopo un'esecuzione di impeccabile tradizionalità ma per noi occidentali probabilmente durissima. La storia riguarda una ragazza morta prima di conoscere l'amore, cui è concesso di tornare sulla terra come fantasma e di unirsi allo studente che vagheggiava; e contiene le solite interminabili smancerie sulla luna e sui boccioli di pesco, dalle quali i discendenti del Celeste Impero non si sarebbero più allontanati fino ai nostri giorni. Sellare fa parlare in inglese i due innamorati spesso in pigiammo e intenti a teleriprendersi con piccole camere portatili, mentre le due donne anziane (Spirito dei Fiori, Profumo di Primavera) bamboleggiano gorgheggiando in lingua. Le musiche, monotone ma ammalianti, sono suonate su strumenti di lì, ma pian piano si trasformano fino a diventare nostre contemporanee. Insomma, pur con sacche di noia, la gita guidata in un mondo teatrale remoto, ma forse meno di quanto si pensava, risulta vincente. Come vince, del resto ci è abituato, Saverio Marconi, il cui Sette spose per sette fratelli (versione italiana del musical di Lawrence Kasha, David Landay, Johnny Mercer e Gene de Paul, tratto per Broadway dal celebre film di Stanley Donen), ora al Si¬ stina di Roma per un mese, soddisfa perfettamente il suo pubblico. Io veramente mi appassiono di più ai tortuosi casi della cinesina morta prima del tempo che non a questa rivisitazione alla Disney del ratto delle Sabine, collocata fra i rudi pionieri dell'Oregon; e fra i musical apprezzo di più quelli con qualche ambizione di scavo dentro ai personaggi (in confronto, «A Chorus Line» è «Edipo Re»). Ma il mestiere esibito, almeno per l'Italia dove il genere è ancora relativamente nuovo, è impeccabile. I due punti di forza dello spettacolo sono la scenografìa di Aldo De Lorenzo, agili e arguti girevoli col giusto tono fiabesco, più dei costumi di Zaira De Vincentiis, dal gusto forse un po' troppo tirolese; e il brio dei balli, culminante in un numero collettivo ritmato da scope, piatti metallici, mani e altri strumenti di fortuna, giustamente assai applaudito. Le altre note positive comprendono le musiche eseguite dal vivo, ancorché sgradevolmente amplificate (come le canzoni), e il buon lavoro di tutti gli interpreti intorno agli ottimi protagonisti Raffaele Paganini e Tosca. Masolino d'Amico ico^J

Luoghi citati: Chorus Line, Italia, Oregon, Roma