Un covo a Torino per il terrore di Bin Laden di Lodovico Poletto

Un covo a Torino per il terrore di Bin Laden L'allarme lanciato dai servizi inglesi, il gruppo si sarebbe occupato di trovare i soldi per finanziare le azioni Un covo a Torino per il terrore di Bin Laden Presi tre fiancheggiatori TORINO. Tre fiancheggiatori di terroristi islamici. Uomini di secondo piano, ma legati al presunto mandante delle stragi alle ambasciate americane di Kenya e Tanzania: il nTiliardario Osama Bin Laden. L'identikit di tre egiziani arrestati l'altra notte a Torino dai funzionari della Digos non è ancora completo. Ma già si sa che due avrebbero avuto «contatti molto stretti» con terroristi che svolsero un ruolo importante negli assalti alle ambasciate Usa, in contemporanea ad agosto. E' una storia che parte da lontano quella dei tre arresti effettuati nella notte tra giovedì e venerdì a Torino, nel quartiere di Lingotto, poche centinaia di metri dagli stabilimenti Fiat Mirafiori. Zona di operai e impiegati. Sulle loro tracce la Digos si incanala su segnalazione del ministero, dopo una nota riservata dai servizi segreti Britannici che segnalavano la presenza sotto la Mole di presunti terroristi. Il 28 agosto arriva in città una squadra di agenti della Cia che si occupa, con i colleghi della pohzia italiana del gruppetto di sospettati fino alla notte degli arresti. Per capire cos'è capitato, bisogna fare un salto indietro nel tempo. Al 7 agosto, quando due bombe esplodono quasi nello stesso istante nelle capitali di Kenya e Tanzania, di fronte alle ambasciate americane, uccidendo 250 persone. L'Fbi si butta alla ricerca di autori e mandanti. Quando vengono effettuati i primi fermi (forse gli esecutori dell'attentato) si scoprono collegamenti internazionali. E una strada porta a Londra, quartieri del Nord-Ovest. La sezione antiterrorismo di Scotland Yard's e il servizio segreto inglese, MI5, individuano otto alloggi dove vivono integralisti islamici e f fiancheggiatori di terroristi vicini a Bin Laden. Ancora Scontland Yard's scopre che da una delle case sotto sorveglianza, in uno dei sobborghi più popolari della city, partono numerose telefonate verso l'Italia. Il 23 settembre la polizia britannica e i servizi decidono il blitz. In manette finiscono otto persone. Due, uno yemenita e un keniota, sono stati subito accompagnati negli Stati Uniti, perché fortemente sospettati dell'attentato alla sede diplomatica statunitense di Nairobi. Mancano però all'appello due uomini tornati in Italia: un egiziano di cui si conosce solo il nome, Amoud (forse l'uomo che stava preparando un attentato alla sede dell'ambasciata americana a Tirana) e uno yemenita: Mahmud Salah, per gli inquirenti il presunto capo di questo gruppo di fiancheggiatori. Spariti da Londra un paio di settimane fa, i due erano arrivati a Torino. Vivevano in un alloggio al 27/bis di via Tonale. Terzo piano. A pochi passi dalla casa di Michela Deprà e Mandouh Ellaban, moglie e marito: la coppia cui sarebbero state effettuate decine di chiamate da Londra. Un caso? Niente affatto. Mandouh Ellaban, 32 anni, egiziano pure lui, aveva preso casa a Torino nell'84. Il suo nome era stato segnalato in un elenco di «possibili fondamentalisti islamici». Allora, su di lui come su altri, erano stati fatti numerosi accertamenti, ma non era emerso nulla di rilevante. In questi 14 anni di presenza a Torino, Mandouh Ellaban si era costruito una vita nuova: moglie, due figli di 3 e 4 anni, un lavoro come ambulante di frutta e verdura. Cinque anni fa una malattia: coalizzato, era in cura da tempo. Ma, secondo gli mc^uirenti, avrebbe mantenuto contatti con i presunti fiancheggiatori di terroristi islamici. Anche i due arrivati da Londra. Li nascondeva? Favoriva la loro latitanza? Supposizioni. L'altra notte gli arresti. In carcere finiscono l'egiziano di cui si sa solo il nome, Amoud; il giovane yemenita e presunto capo del gruppo, Mahmud Salah ed Ellabam Mandouh. Sua moglie, fermata, è solo denunciata. Per tutti l'accusa è detenzione di armi. Un vero arsenale. Tre pistole (due con silenziatore e una 357 magnum con matricola abrasa), una mitraglietta di fabbricazione israeliana Uzi, una trentina di scatole di proiettili, anche per fucili, che però non sono stati trovati. E c'erano ancora caricatori per mitragliatrice, radio ricetrasmittenti, tre parrucche, baffi finti e tre paia di manette. «Materiale per fian cheggiatori» dicono gli inquirenti, lasciando intendere che, forse, il gruppo si occupava di reperire de naro per sovvenzionare i terroristi, più che partecipare attivamente ad azioni. Nel covo torinese c'erano anche dollari, sterline, una trentina di lingotti d'oro da 2 etti e mezzo, e numerosi lingottini d'argento. E infine pubblicazioni scritte in egiziano a macchina e a mano, già affidate a periti per la traduzione; videocassette propagandistiche sull'integralismo islamico. E adesso l'indagine va avanti. I pm Tatangelo e Dodero li hanno interrogati per una notte intera, cercando riscontri alle informazioni giunte dall'Inghilterra. Ma soprattutto si cerca di capire quale ruolo hanno avuto nei sanguinosi attentati del 7 agosto due dei tre fermati, se e perché erano in contatto con i presunti terroristi che il servizio segreto britannico, MI5, ha subito inviato negli States dopo l'arresto. Infine la domanda più importante. Perché a Torino c'era un covo di presunti terroristi islamici? «Perché Torino e in generale l'Italia sono considerate un rifugio dove nascondersi in caso di pericolo» dicono genericamente gli investigatori. Il nostro Paese non è nel mirino dell'integralismo islamico. Non ha questioni aperte con il medioriente. Per questo è un ottimo punto d'approdo, e una base «sicura». Lodovico Poletto f A sinistra gli oggetti e le armi trovate nel covo torinese. Sotto Bin Laden