Un fantasma nel voto d'Australia: il pericolo giallo di Fabio Galvano

Un fantasma nel voto d'Australia: il pericolo giallo CANBERRA Pauline Hanson, ex ristoratrice, guida una crociata contro «l'invasione degli asiatici» e le richieste degli aborigeni Un fantasma nel voto d'Australia: il pericolo giallo / liberal-nazionali sono favoriti, ma la vera novità è il partito xenofobo LONDRA DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Il vero scontro, nelle elezioni di domani in Australia, è fra le due anime di quel continente-nazione: quella che ha le sue radici nella secolare immigrazione da ogni parte del mondo, tale da farne un «crogiuolo» non dissimile dall'America d'altri tempi, e quella che invece proprio all'immigrazione - soprattutto a quella asiatica - dice basta, preoccupata com'è di difendere i sogni di un'«Australia bianca» pronta stavolta anche a frenare eccessive concessioni agli aborigeni. Anche se la politica a sfondo razzista è stata formalmente adottata e proclamata soltanto da quel partito marginale che è il One Nation creato da Pauline Hanson (destinato peraltro a deludenti risultati per via del sistema elettorale preferenziale), il vero scontro fra la coalizione Liberal-National del primo mini¬ stro John Howard e il Labor Party dell'intraprendente Kim Beazley risente di quella scomoda presenza, che sovente offusca i temi - soprattutto economici emersi come cerniera della campagna elettorale. I sondaggi indicano un leggero vantaggio laburista. Ma difficilmente Beazley riuscirà a ribaltare la clamorosa sconfitta che il suo partito - allora nelle mani del primo ministro Paul Keating - subì due anni e mezzo fa: in virtù, appunto, del complicato sistema preferenziale che scarica sulle seconde e sulle terze scelte le schede per i candidati meno votati. Howard, che nel 1996 aveva posto fine a 13 anni di dominio laburista, sembra destinato a prevalere, sia pure di misura: a dispetto - ma qualcuno dice che invece è stato proprio quello il suo colpo magistrale - del silenzio con cui ha accolto il controverso ciclone-Hanson. Sebbene sia stato proprio il successo elettorale di quella virago del nazionalismo alle elezioni locali del Queensland - 7% nelle previsioni dei sondaggi, 23% alla conta finale - a metterlo sulla strada di queste elezioni anticipate, Howard non ha mai esplicitamente condannato la politica della Hanson. E molti dicono che almeno in parta, sia pure con un più raffinato giudizio politico, la condivida. Certo, Pauline Hanson ha lasciato un segno indelebile: 44 anni e due divorzi alle spalle, quest'ex proprietaria di un negozio di fish and chips si è autoproclamata «madre della nazione» - salvo poi farsi rimbeccare dal figlio Steven, 23 armi, che l'ha accusata di avere anteposto la carriera alla famiglia - predicando l'alt all'immigrazione finché tutti gli australiani avranno un lavoro (la disoccupazione si aggira attorno all'8%), un taglio agli aiuti esteri finché il bilancio non sarà in pareggio, una protezione tariffaria contro il disperato dumping delle ex tigri asiatiche. Ma soprattutto, dice basta con le politiche remissive di fronte alle continue e crescenti rivendicazioni degU aborigeni; e basta a quella che chiama «l'asianizzazione dell'Australia» (è di origine asiatica, ormai, il 4,5% della popolazione di 18,5 milioni). Per liberali e laburisti l'inevitabile campo di battaglia è stato quello dell'economia, che per ora resiste alle crisi asiatiche. Il Pil è cresciuto nell'ultimo anno del 4% - molto più del previsto e dovrebbe crescere di almeno il 2,75% nei prossimi 12 mesi, l'inflazione è salda sotto il 2%, i tassi bancari (5%) sono al livello più basso da una generazione. E' il biglietto da visita, nonostanta una disoccupazione all'8,1%, con cui Howard - occhialuto, calvo, pacioso avvocato così diverso per temperamento da tutti i suoi frenetici avversari - ha puntellato la sua campagna elettorale. E' convinto di poterla spuntare, anche se i suoi alleati del National Party - guidati dal vicepremier Tim Fischer, rappresentano l'Australia più conservatrice ed economicamente intervenzionista, quella dei «rednecks», gli agricoltori dello sterminato bush australiano hanno perso terreno per effetto della «sirena» Hanson. Tanto è convinto, l'avvocato Howard, da sfruttare queste elezioni - in palio tutti i 148 seggi della Camera bassa, ma anche 40 su 78 del Senato - per introdurre una complessa riforma fi- scale: con l'adozione di un'imposta del 10% su beni e servizi (paragonabile alla nostra Iva) e tagli alle imposte sul reddito. Per un politico che, dopo essere stato trombato nella rincorsa alla leadership durante gli anni in cui i liberali erano all'opposizione, paragonò un suo eventuale ritorno sulla scena politica come «la resurrezione di un Lazzaro con un triplo bypass», Howard vuol dimostrare di essere ancora e sempre più il Lazzaro australiano. Ma Beazley e i laburisti hanno altre idee. Essi additano nella crisi asiatica la maggiore sfida alla cresci¬ ta controllata dell'economia australiana e, dalle posizioni più a sinistra assunte dopo la sconfitta elettorale del 1996, si oppongono a privatizzazioni e smantellamento delle barriere doganali, favorendo invece grandi programmi di aiuti all'industria (per ridurre la disoccupazione dall'8% al 5%) e tagli fiscali per i redditi più bassi. Beazley, 49 anni, professore universitario che in passato aveva fatto anche il becchino, gioca la carta della popolarità personale. Non riuscirà forse a rovesciare i risultati elettorali di 31 mesi fa, che parevano aver messo il Labour Party in un interminabile deserto politico, ma ha restituito un «volto umano» a un partito ferito dalle stranezze ideologiche di Keating. Se non fosse per la Hanson, che ha fomentato latenti sentimenti nazionalistici, potrebbe anche riuscire nel miracolo. Fabio Galvano li premier Howard può vantare una economia che regge alla crisi Pauline Hanson (a sinistra), leader del partito xenofobo, con un'ammiratrice

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