Quei delitti di famiglia figli della «normalità» di Mirella Appiotti

Quei delitti di famiglia figli della «normalità» inchieste. Uno psichiatra e un giudice raccontano quattro percorsi dell'orrore domestico Quei delitti di famiglia figli della «normalità» w iUISA l'ha fatto con una bottiglia, Enrico con tredici coltellate, Simona I I con un cuscino, Mario ■^Icon una «mazzetta» da carpentiere e poi ha dato fuoco. Sono quattro colpevoli del «delitto dei delitti»: il matricidio. Giovani. Nessuno di loro era un Nerone, né un'Elettra, neppure un Pierre Rivière, l'uomo la cui storia criminale è stata l'oggetto del grande saggio di Foucault. Quattro mai assurti al rango di protagonisti, come i purtroppo numerosi assassini in famiglia le cui vicende hanno riempito in i giornali. Rimasti sconosciuti, incapaci di suscitare l'interesse dei inedia, sepolti sino a ieri negli incartamenti di una Corte d'Assise che a tre di loro ha comminato nel '96 pene modeste rispetto all'indicibilità del gesto, mentre il quarto si era tolto di mezzo prima del processo. Che cosa allora ha spinto uno psichiatra «in trincea» come Paolo Crepet ed un giudice non meno coraggioso come Giancarlo De Cataldo a raccontare proprio «questi» percorsi di orrore, «atti che nascono e si mimetizzano in una silenziosa, patologica normalità»? La singolarità del loro libro, I giorni dell'ira Storie di matricidi appena uscito da Feltrinelli, sta proprio e prima di tutto nell'aver imboccato «questa» direzione che li ha poi quasi obbligati a rifiutare l'idea di scrivere un saggio («sarebbe stato l'ennesimo, sul tema. Scrivere un saggio è a volte una scelta ansiolitica per chi la compie») per sfidare la «narrazione», nella quale il vissuto dei primi attori e dei comprimari è tutt' altro che univoco, «personaggi» che sono una somma di volti, di fatti, soprattutto di emozioni «solo genericamente ispirati agli interrogatori, ai verbali, alle perizie, ai documenti». Perché attingendo alla diversa e per molti aspetti complementare esperienza professionale i due autori non vogliono parlare «a una ristretta congrega di esperti della psiche e del diritto penale, ma alla gente. A quella gente che legge le cronache percependo qualcosa di insondabile e di inquietante. Dentro un delitto, dunque anche dentro un matricidio, dobbiamo cercare di capire l'origine delle nostre paure. Questo è l'unico senso che ha per noi, il parlare del Male». «Non avrei voluto ammazzarla, non adesso almeno» racconta facendoci rabbrividire Luisa all'amante della madre (l'anonimato è di rigore «perché a noi non interessa mettere in luce il particolare granguignolesco, amplificare il dettaglio racca¬ pricciante», unico dato costante, allarmante, in tutti e quattro gli scenari, il caldo, il sudore, il senso di claustrofobia) ma c'è l'indiferenza che scatena il suo furore «l'offesa più orrenda che un genitore possa fare al proprio figlio, contro cui non puoi opporre nulla, tranne una cosa». Quale? «Il rancore». Un rancore che la mancanza di un padre, figura assente in tutte le storie del libro, rende più feroce. «Un giorno papà ci ha abbandonati senza dire nulla...» e Simona e sua madre, entrambe diversamente malate, la prima epilettica, la seconda anoressica-bulimica, cominciano il loro rapporto-calvario. «Mia madre aveva smesso di vomitare e ingrassava ogni giorno di più, godeva a imporre ai miei occhi il suo quotidiano deformarsi, gli altri erano scappati, così siamo cresciute l'una addosso all'altra riducendo le nostre vite ad un confronto con e dentro il nostro male». La solitudine. Tra poveri e tra ricchi. Come quella di Mario, il figlio non voluto, un padre mai conosciuto, una madre annoiata, lontana, silente, che arriva alle spalle di lei seduta al computer, «amore, ragazzo mio, non fare così, vieni qui tra le mie braccia... ci sono andato e poi ho colpito, ho fermato per sempre quell'istante che avevo desiderato, l'istante in cui la sua voce... e la voce dell'angelo, erano una sola voce, e mentre la finivo le dicevo "grazie", perché finalmente... anche per me...». Mario è il suicida, Enrico sarà invece riconosciuto totalmente incapa¬ ce di intendere e di volere, ma non è per questo che la sua tragedia viene raccontata dalla sorella chiamata a deporre al processo, invitata dai legali a un perdono che coinvolge lei stessa, in certo modo correa, come tutte le figure di contorno a questi drammi. Angela rappresenta, senza minimamente alleggerire quella individuale, una chiamata di responsabilità collettiva che è la vera sfida del lavoro di Crepet e De Cataldo. ((Abbiamo scelto di scrivere le storie di questi delitti perché contengono in sé un aspetto metaforico: non si tratta solo di comportamenti lucidi o folli che siano - che dicono della devastazione di una singola esistenza, ma descrivono il naufragio della struttura fondamentale della nostra società: la famiglia. Questo soprattutto ci interessa: puntare il dito sulla frantumazione morale delle nostre relazioni, sulla solitudine cui ci siamo consegnati e arresi, sull'indifferenza che spegne le nostre emozioni. Sottolineando - aggiunge Crepet - che i nostri quattro matricidi maturano il loro orrore in un'atmosfera di "normalità", dove tutto quello che precede il gesto estremo può essere accaduto anche a noi, nelle città ormai invivibili, nelle condizioni claustrofobiche, asfittiche di tutta la nostra esistenza che ci precludono l'unica via di salvezza, la possibilità di amare». Terribile responsabilità questa volta per i due autori anche solo il «parlare» di morte della famiglia. «Ma questo non è un funerale, è un grido d'appello. Specialmente chi, come noi come tantissimi, è impegnato sul fronte dei problemi giovanili, non può tacere». Mirella Appiotti Matricidio: così nella devastazione insospettabile di quattro vite si riflette il naufragio dei sentimenti Paolo Crepet è autore con Giancarlo De Cataldo del volume «I giorni dell'ira» non un saggio ma un'opera per «parlare alla gente»

Persone citate: Crepet, De Cataldo, Feltrinelli, Foucault, Giancarlo De Cataldo, Nerone, Paolo Crepet