IL SUD A TORINO di Alberto Papuzzi

IL SUD A TORINO IL SUD A TORINO l'epopea della speranza ~j\ TORINO I primi diciassette anni I della sua vita, a Reggio I Calabria, non esistono _*Jpiù, forse non sono mai esistiti. «La mia vita - dice infatti Italia Febbo - è cominciata quando sono arrivata a Torino nel 1957». La città dell'immigrazione, la Torino amara, come diceva il titolo di un articolo di Diego Novelli, sul settimanale comunista Vie Nuove, la fece sentire «una persona come tutte le altre». E aggiunge: «Potevo comprarmi le scarpe perché mi guadagnavo i soldi. Invece laggiù dovevo aspettare che i soldi me li desse mio padre». Se andrà a vedere Così ridevano la signora Febbo, che gestisce un negozio di ceramiche e cornici, forse riconoscerà la scritta Non si affitta a meridionali, ricorderà la rabbia di quando nei bar chiamavano napuli lei e i fratelli, ma non avrà moti di compianto per la sua storia di immigrata, perché il suo lungo viaggio su un treno della speranza dalla Calabria a Torino ha voluto dire «sentirmi una donna realizzata, anche essendo meridionale». Ma il senso di emancipazione che il Nord ha rappresentato per le donne del Sud si rovescia in un opposto senso di frustrazione, nell'esperienza e nel ricordo di molti uomini: «Io so che allora, a Torino, sono stato discriminato», dice Donato Resta, manovale edile pugliese, sbarcato da Gioia del Colle alla stazione di Porta Nuova, con una scatola di cartone, nel 1960 a 23 anni. E' la storia d'un fuggitivo, come li chiamò Goffredo Fofi in un memorabile libro inchiesta {L'immigrazione meridionale a Torino). Un fuggitivo dalla fame, e da condizioni di sfruttamento, «orgoglioso di essere scappato dal paese, anche se la sera mi trovavo a piangere», che portava nella città del conflitto industriale una ribel lione di nuovo stampo. In Fiat dal 1963, l'attuale pensionato Donato Resta dice perciò: «Il sindacato e il partito mi hanno dato tutta la poca cultura che possiedo. La mia era una vita chiusa. E' stata la scelta politica a riempirne i vuoti spazi». I sei anni, dal '58 al '64, teatro del film rappresentarono la seconda parte della travolgente ondata migratoria che fece dell'antica capitale sabauda una metropoli di un milione e duecentomila abitanti. «Nei periodi caldi arrivavano quindicimila persone al mese - dice Novelli, allora giornalista comunista, in seguito popolare sindaco -. Ci rendiamo conto di che cosa significava? La città non seppe organizzare l'inserimento. Che fu selvaggio. Con le pensioni dove lo stesso letto era affitato a più immigrati, secondo i turni di lavoro che facevano. Con le baracche lungo il Po, dove sor- gerà Italia 61. Con la corsa a tirar su case nei nuovi quartieri ghetto, destinati a diventare i simboli del degrado, da via Artom alle Vallette». Quella Torino era razzista? «Beh sì. Nei confronti dei meridionali i torinesi nutrivano una diffidenza storica, che si traduceva nei soliti luoghi comuni. Si diceva che fossero rumorosi e sporchi e cose tipo A ciaciaro sempre (chiacchierano sempre), A fan tròpi cit (fanno troppi bambini) e, peccato gravissimo, A l'han nen veuja 'd fé gnente (non hanno voglia di far niente). Gli stessi stereotipi che si usano per gli extracomunitari. La ritrosia si annidava anche nel pei. Erano nate la sezione dei pugliesi, la sezione dei siciliani, e così via. E' stato Adalberto Minucci, all'inizio degli Anni Sessanta, a contrastare la tendenza, inserendo i meridionali nei quadri del partito e nei consigli comunali». In questa massa, fissata nella storia da un'iconografia emblematica (le fotografie di Lucas, Mulas o Berengo Gardin, le sequenze di Rocco e i suoi fratelli), si poteva riconoscere qualche carattere di un'identità collettiva? «Negli adulti c'erano minoranze consapevoli, che avevano fatto le lotte per la terra - risponde don Carlo Carlevaris, allora cappellano del lavoro, il più giovane, e assistente diocesano dell'Azione Cattolica -. Ma la maggioranza, e soprattutto i giovani, non avevano una dimensione del collettivo. Erano problemi individuali quelli che volevano risolvere: innanzittutto mandare i soldi casa o almeno rendersi indipendenti dalle famiglie, di- Novelli: «L'inserimento fu selvaggio. Cerano pensioni dove lo stesso letto era affittato a turno a più persone» sposti a subire di tutto per riuscirci». Nel 1961 la Curia aprì un Centro assistenza immigrati, affidato a don Luciano Allais e sostenuto da contributi della Fiat. Ma la questione immigrati segnò anche una rottura nel mondo cattolico torinese. Il giovane Carlevaris, predicatore della buona novella ai poveri, fu protagonista d'uno scontro sia con i dirigenti delle fabbriche sia con l'autorità ecclesiastica. Germogliarono allora, nella Torino amara, sul modello delle francesi missions ouvrières, i preti operai: «Nel 1965 con il placet del nuovo vescovo, Michele Pellegrino, potei andare in seminario e dire ai futuri sacerdoti: vi propongo di fare per un anno o due la vita di quei ragazzi che sono venuti a Torino dal Sud. Dissero di sì 11 su 26». Nelle vicende dell'immigrazione torinese si specchiano al tempo stesso un potente bisogno di integrazione, contro la speciosità dei pregiudizi, e le ribellioni d'una società in movimento, da rurale diventata industriale. Il senso del decoro e quello del rispetto sono j precetti della esperienza di immigrata di Italia Febbo. Viene a Torino per raggiungere i fratelli, due più vecchi, che facevano i muratori, e uno di soli dieci anni, garzone meccanico. «Una sorella faceva comodo, per tenere in ordine la casa, far da mangiare, lavare e stirare». Abitavano in una casupola a Madonna di Campagna, cucina, camera, bagno. Nel palazzo di fronte stavano i proprietari. «Appena arrivata, c'era l'asiatica. Mio fra- Dopo il trionfo di Venezia il regista sta girando per la Rai «Poveri noi» sull'Italia dei primi Anni 60 tello maggiore si ammalò, in più in quel periodo era senza lavoro: usciva lo stesso di casa tutte le mattina alle sei e restava a dormire in giro per i prati, per timore che i proprietari della casa lo considerassero disoccupato o scioperato». Ma l'operaio Donato Resta vedeva la fidanzata la domenica, passava le sere al bar Mogambo di corso Regina, mangiava sempre pane e mortadella e non aveva soldi da mandare alla madre «che voleva sposare l'ultima figlia». Quando si sposa lui, nel 1963, in due possiedono «due reti, due materassi, una stufa a carbone, due pentole, quattro piatti, un tavolino, forse tre sedie». Però la moglie non andava a lavorare, «perché la cultura meridionale voleva la donna a casa». La frustrazione si scaricava sul tempo di fabbrica: «Alla catena dei camion, in diciassette minuti dovevo mettere dodici bulloni per fissare il fianchetto, la targa e il portapacchi. Ma non ce la facevo. Così avvitavo due bulloni e andasse avanti che ballava tutto». Ci sono molte coincidenze in questi due percorsi: il tempo libero passato esclusivamente nel giro dei meridionali, il matrimonio con compaesani, nel giro per entrambi di qualche anno, e anche il riconoscimento d'una solidarietà settentrionale. Come quando i proprietari della casupola, dove i fratelli Febbo erano arrivati a vivere in sette, parteciparono alle nozze di Italia. Come quando Donato Resta, ancora muratore, non ce la fa a sollevare una palata di cemento: «Il geometra mi guardò il bianco dell'occhio e mi chiese che cosa avevo mangiato la mattina a colazione. Pane e mortadella. E ieri sera: lo stesso. E ieri l'altro: lo stesso. Mi portò al ristorante e mangiai sette piatti. Mi diede anche ventimila lire da mandare a casa». Il punto fondamentale che, invece, divide queste due esperienze è il diverso modo in cui Torino diventa per l'una e per l'altro l'occasione di inserirsi nella vita. Diventa futuro. Tuttavia nessuno dei due ha mai sognato di tornare al luogo d'origine. Le radici della loro identità non sono a Reggio Calabria o a Gioia del Colle. Se allora gli si domanda che cosa si sentano, «Non posso dire di essere piemontese, perché ho ancora l'accento meridionale - dice Resta . Non ho imparato il piemontese. Però vivo a Torino e adesso ci vivo bene». E lei: «In verità non mi sento né piemontese né meridionale. Non saprei dire. Io sono una persona come le altre. E mi basta. Se mai una persona che non deve vergognarsi delle origini meridionali». Alberto Papuzzi