SALE

SALE SALE u NA ventina di anni fa Jean Mayer, allora presidente della Tufts University statunitense, definiva il sale da cucina «il più pericoloso fra tutti gli additivi che si usano per insaporire i cibi». In quel periodo molti studi avevano stabilito che per tenere bassa la pressione bisogna mangiare insipido; e il consiglio era rivolto a tutti, anche se chi soffriva di ipertensione doveva stare più attento degli altri. Già allora però non c'era accordo fra studiosi nell'attribuire al sale un ruolo così importante come causa della pressione alta, e il divario fra le posizioni di chi condannava il cloruro di sodio e chi, invece, lo assolveva con formula (quasi) piena si è approfondito con gli anni. Recentemente, dopo la pubblicazione di altri studi, la rivista statunitense Science ha fatto il punto della situazione sulla controversia. Mettendo l'accento sull'unico aspetto sul quale concordano entrambi gli schieramenti: l'ipertensione dipende da moltissimi fattori e, per quanto riguarda l'alimentazione, per limitare i rischi si deve ridurre drasticamente il consumo di grassi e mangiare mol■ta-frutta e verdura. Inoltre, a tavola non devono mancare i cibi contenenti potassio, magnesio e calcio, come per esempio il latte, preferibilmente magro. E il sale? A dispetto di decenni di ricerche che lo hanno visto protagonista, il sale da cucina continua a essere la pietra dello scandalo. Nessuno nega che diminuirne il consumo faccia calare la pressione: il problema è stabilire, l'entità di questo effetto e quale vantaggio possano trarre gli ipertesi da una dieta povera di sale. Gli studi più recenti sembrano convergere verso la conclusione secondo cui una riduzione di cloruro di sodio può produrre un piccolo beneficio, e deve quindi essere consigliata a chi ha la pressione alta. Per questo la maggioranza dei medici (e anche l'Istituto nazionale della nutrizione italiano) consiglia di non superare i 6 grammi al giorno. Il dibattito però è tutt'altro che concluso, Gli scienziati cominciarono a chiedersi se il cloruro di sodio potesse avere effetti dannosi sulla pressione già intorno agli Anni Quaranta, quando un me dico della Duke University, lo statunitense Wallace Kemper, notò che una dieta povera di sale, ma ricca di potassio e in cui l'apporto di grassi e calorie era molto ridotto, costituiva un ri medio efficace per i suoi pa zienti che soffrivano di pressio ne alta. Per molti anni il regime alimentare suggerito da Kemper fu utilizzato per curare gli ipertesi, e la validità del meto do fu confermata, oltre che dai suoi risultati, dalle ricerche degli anni successivi. L'errore di valutazione però fu commesso quasi subito, perché l'attenzione degli esperti si concentrò soltanto sul sale, mentre gli altri elementi del regime alimentare contro l'iper tensione non furono considera ti come avrebbero dovuto. Per esempio alcuni studi di epidemiologia, la scienza statistica che correla la possibilità che insorga una certa malattia - in questo caso l'ipertensione - con l'esposizione a un determinato fattore di rischio - il sale introdotto con la dieta - cercarono di capire se la pressione arteriosa relativamente bassa di alcune popolazioni indigene, come per esempio gli Indios, potesse essere messa in relazione con la dieta. Queste ricerche presero in considerazione il consumo di cloruro di sodio e, dati alla mano, conclusero che gli occidentali avevano la pressione più alta perché i loro cibi erano troppo salati. Tuttavia le popolazioni indigene con cui venivano fatti i confronti avevano sì una dieta iposodica, ma mangiavano anche molta frutta e verdura, e pochissimi grassi. Questo fatto però passò in secondo piano. Sul versante opposto, negli stessi anni, altri studi di epidemiologia, condotti su persone appartenenti allo stesso gruppo etnico occidentale, davano risultati molto meno netti e di difficile interpretazione. Di fatto le cifre non autorizzavano a concludere che il cloruro di sodio fosse davvero dannoso, ma non si poteva neppure affermare con certezza che gli ipertesi potevano salare le pietanze a loro piacimento. Un consiglio di questo tipo poteva provocare migliaia di morti: la pressione alta infatti espone al rischio di sviluppare malattie cardiocircolatorie, insufficienza renale e ictus. Fu così che, per cautelarsi, e certamente anche perché tutti erano convinti che mangiare insipido non potesse comunque far male (ma oggi alcuni contestano questa affermazione), la maggioranza degli esperti continuò a raccomandare di limitare l'uso del sale. Del resto, trovare una giustificazione che andasse al di là dei numeri della statistica sembrava fin troppo semplice: mangiando più sale l'organismo è costretto a mantenere la concentrazione salina al suo interno trattenendo liquidi. E per questo la pressione sale. Una spiegazione elementare che però, nel corso degli anni, ha dovuto fare i conti con le ricerche che hanno dimostrato che i meccanismi coinvolti nel mantenimento dell'equilibrio salino sono in realtà molto più complessi. Essi includono: alcuni fattori genetici, l'in¬ fluenza di certi ormoni, la presenza di altri sali come il potassio o il calcio, nonché le calorie introdotte con la dieta, l'età, il sesso e il gruppo etnico di appartenenza. E' anche stata ipotizzata una sensibilità individuale al cloruro di sodio, per cui alcune persone sarebbero maggiormente soggette a rialzi di pressione quando mangiano cibi salati. Alla fine degli Anni 80 un gruppo di studiosi guidati dal cardiologo Jeremiah Stamler e dall'epidemiologo Geoffrey Rose, decise di mettere la parola fine alla controversia con il più grande progetto di ricerca mai avviato su questo argomento. L'indagine, battezzata Intersalt, coinvolse 150 scienziati che esaminarono oltre 10.000 persone appartenenti a 52 Paesi diversi. Ma la sua pubblicazione, avvenuta nel 1988, non fece che fomentare le polemiche. Lo studio infatti rilevava l'esistenza di un'associazione molto debole fra il sale nella dieta e l'ipertensione (ma qualche anno dopo alcuni dei ricercatori che avevano partecipato allo studio cambiarono idea e dissero che non c'era nessuna relazione), anche se, analizzando bene i dati, si poteva notare che la correlazione fra il consumo di sale e l'innalzamento della pressione aumentava con l'età. La ricerca si pronunciava a favore della dieta insipida, soprattutto per le persone anziane, ma le critiche che ricevette furono così feroci che qualche anno dopo i due medici che l'avevano promossa furono costretti a riprendere in mano i dati e a rielaborarli per dimostrare che l'associazione fra consumo di sale e innalzamento della pressione era più consistente di quanto precedentemente affermato. I due furono accusati di manipolare i dati a loro piacimento, e la polemica continua tuttora. Negli ultimi anni si sta anche sviluppando un nuovo filone di ricerca, che prende in considerazione anche altri aspetti dell'alimentazione. Lo scorso anno uno studio denominato DASH, pubblicato su New England Journal of Medicine, ha esaminato la variazione della pressione arteriosa in alcuni pazienti ipertesi che hanno seguito una dieta ricca di frutta, verdura e latticini magri e povera di grassi. Dopo tre settimane, la pressione diminuiva di circa 5 millimetri di mercurio in chi aveva valori normali di partenza, e di ben 11 negli individui ipertesi. Gli stessi autori stanno ora conducendo una ricerca analoga sul sale da cucina. I risultati sono attesi entro un paio di anni. Margherita Fronte Ridimensionato l'allarme ipertensioneecco il punto sugli ultimi studi 98 er CNOLC IntegratoServonoNA dieta varequilibrata permdi assumere tuelementi di cui l'organha bisogno. 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Persone citate: Geoffrey Rose, Jean Mayer, Jeremiah Stamler, Margherita Fronte