«Per loro sono metodi normali»
«Per loro sono metodi normali» «Per loro sono metodi normali» Ayala: ed è questa la cosa più preoccupante I RITUALI POLIZIESCHI OROMA UELLO che mi preoccupa e mi allarma è che alla procura di Roma, evidentemente, ritengono normali e rituali questi metodi di interrogatorio», dice Giuseppe Ayala a proposito del videotape che ha scatenato la bufera sul processo per l'omicidio di Marta Russo. Senatore dell'Ulivo e sottosegretario alla Giustizia, Ayala parla anche nella veste di ex pubblico ministero nel pool antimafia di Palermo. Perché pensa che siano metodi normali? «Perché loro sapevano che c'era la videoregistrazione e ne conoscevano il contenuto, essendone stati protagonisti, e non hanno avuto alcuna esitazione a portarla davanti alla Corte d'assise. Questo significa che per loro non c'era nulla di anormale, quindi ho il timore che in quella Procura ciò che è avvenuto in quell'interrogatorio possa essere considerato la norma».. Il che secondo lei non dovrebbe essere, par di capire. «Secondo me e secondo l'opinione pubblica che s'è letteralmente ribellata a questo episodio. E noi non possiamo non tenerne conto. Non bisogna pensare solo alle reazioni degli "addetti ai lavori", ma alla gente comune, a persone estranee agli ambienti giudiziari che in questi giorni mi hanno tempestato di domande e richieste. C'è la sensazione che quel che è capitato alla signora Alletto possa capitare a chiunque, e questo è un dato oggettivo». A sentire i pm finiti sotto accusa, però, era oggettiva anche la reticenza e l'omertà della testimone. «Certo, il quadro nel quale si muovevano era difficilissimo, mi par di capire che c'erano testimonianze che portavano in direzione opposta a quella della Alletto, e questi ex colleghi non sono certo da mettere al muro per un episodio. Però ritenere che quello è un modo rituale di interrogare...». Non va bene? «No, vista anche la reazione dell'opinione pubblica direi proprio di no». Nemmeno in un'indagine per un omicidio grave e assurdo come quello dell'Università di Roma? «Ripeto, mi rendo conto che quell'inchiesta era molto complicata, e del fine nobilissimo che muoveva quei pm. Nessuno pretende l'assoluta asetticità in un'inchiesta per omicidio come quella, ma il rispetto delle regole processuali sì». A lei sono capitati testimoni reticenti? «Molti, per gli omicidi a Palermo era quasi la regola, ma non voglio fare lezioni di compor- lamento. Ricordo però le incriminazioni per falsa testimonianza, e al limite anche per favoreggiamento. Una volta mi capitò di occuparmi di un mafioso ucciso sulla soglia di una macelleria, davanti a due o tre garzoni, e non ce n'era uno che avesse visto qualcosa. In quel caso procedere per falsa testimonianza è quasi un fatto automatico, così come è normale avvertire un teste chiaramemte reticente o bugiardo che rischia un procedimento penale a carico. Però arrivare a dire che si finisce in galera e non si esce più, francamente mi sembra eccessivo». Che cosa risponde a chi sostiene che questa vicenda dimostra una volta di più la necessità di separare le carriere dei pm da quelle dei giudici? «Che questa vicenda dimostra esattamente il contrario. Se qui siamo di fronte a metodi troppo polizieschi dei pm, con la separazione dello carriere lo diventerebbero ancora di più, essendo a quel punto l'accusa completamente slegata dalla cultura della giurisdizione. Mi sorprende che certi colleghi del Polo non lo capiscano». C'è anche chi dice che siamo di fronte all'ennesimo attacco politico contro i pubblici ministeri. «E' possibile che una parte delle polemiche sia strumentale alla strategia di attacco ai pm, sia politica che processuale, e questo non è certo condivisibile. Ma non lo scopriamo oggi. E' un andazzo che dura da molto tempo». Igio. bia.l A sinistra, il sostituto procuratore Carlo Lasperanza A destra, Giuseppe Ayala sottosegretario alla Giustizia
Persone citate: Alletto, Ayala, Carlo Lasperanza, Giuseppe Ayala, Marta Russo
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